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Aggressività, violenza e sviluppo emozionale

Le radici familiari della violenza nei giovani


L’aggressività è un costrutto che assume un significato polisemico, infatti da un lato può essere intesa come un’energia di base della personalità a carattere adattivo, tesa alla sopravvivenza e alla riproduzione, dall’altro una disposizione ostile e distruttiva, simile alla pulsione di morte.

L’aggressività peraltro può esprimersi in diversi modi e forme: è stata distinta in ostile o affettiva (reattiva) o strumentale (proattiva) e solo la prima è associata a impulsività; può manifestarsi come una forma difensiva (provocata) oppure offensiva, senza provocazione, e solo questa porterebbe a uno sviluppo antisociale della personalità (Sabatello, 2010).

L’aggressività è uno dei sintomi determinanti di molti disturbi psichiatrici che riguardano l’espressione aggressiva e violenta etero e auto diretta.I disturbi della condotta infantile, seppure molto discussi, sono stati spesso posti in continuità con il disturbo antisociale in età adulta (Loeber, 1990).

Rappresentano infatti il problema più frequente negli adolescenti ricoverati in istituti per la rieducazione o per disturbi psichiatrici e alcuni studiosi francesi rilevano che un quarto della popolazione adulta carceraria ha presentato degli antecedenti psichiatrici nel corso dell’infanzia (Balier, 1985).

Da questi dati si può dedurre che i disturbi della condotta possono essere degli utili indizi prognostici di comportamenti antisociali in età adulta.

Il disturbo antisociale di personalità, precedentemente denominato psicopatia e sociopatia, è un disturbo caratterizzato principalmente da inosservanza, violazione dei diritti degli altri e scarsa empatia e rimorso, che si manifesta in un soggetto maggiorenne, almeno da quando aveva 15 anni.

Le persone con questo disturbo compiono atti illegali e attuano comportamenti immorali e manipolativi per trarre profitto o piacere personale (es. denaro, sesso, potere).

Altre caratteristiche rilevanti del disturbo antisociale sono l’impulsività e l’aggressività.

Le emozioni centrali che appartengono a questa categoria di individui sono la rabbia, l’umiliazione, il disprezzo, il distacco, il piacere di dominare e l’euforia. E’ difficile, invece, per loro provare emozioni come la gratitudine, l’empatia, l’affetto e il senso di colpa.


Aggressività e deficit della funzione riflessiva

La storia personale di un paziente antisociale è segnata da esperienze infantili di privazioni e abusi, da esperienze relazionali fondate sulla crudeltà, sulla trascuratezza, da parte delle figure genitoriali.

Viene a mancare quindi, una figura interna positiva, fonte della fiducia di base, verso se stessi e verso il mondo circostante, che funga da contenitore dei vissuti “cattivi”.

L’oggetto ideale, ovvero, il modello di riferimento che dovrebbe essere rappresentato dal genitore o dal caregiver, diviene un introietto aggressivo e così, il bambino-adulto imparerà a legarsi agli altri rendendoli vittime della sua violenza allo stesso modo con cui le figure di riferimento si sono legate a lui.

Tale modello di attaccamento, non sicuro, non permetterebbe al bambino di sviluppare una tra le più importanti delle funzioni metacognitive, ovvero, la funzione riflessiva.

La funzione riflessiva, secondo Peter Fonagy e Mary Target (1998) è “l’acquisizione evolutiva che permette al bambino di rispondere non solo al comportamento degli altri, ma anche alla sua concezione dei loro sentimenti, credenze, speranze, aspettative…”.

Per questo motivo, le persone con un disturbo antisociale di personalità o comunque tutti coloro che presentano un discontrollo degli impulsi, hanno difficoltà ad assumere la prospettiva degli altri e di comprendere le manifestazioni affettive altrui, per cui si mostrano indifferenti, cinici e irrispettosi verso gli altri.

Allora l’agito aggressivo, violento, diventa il risultato di “un’equivalenza psichica” ovvero di un’incapacità di discernere i contenuti mentali dalla realtà:

Ciò che esiste nella mente deve esistere nel mondo esterno e ciò che esiste all’esterno deve necessariamente esistere anche all’interno della mente (Fonagy, Target, 1998).

Ciò che permetterebbe al bambino di acquisire questa funzione è una relazione diadica fondata su un legame di attaccamento sicuro, reso tale dalla capacità di holding della madre.

Secondo Winnicott (1974) la funzione di holding è la capacità della madre di fungere da contenitore delle angosce del bambino.

E’ la capacità di rispecchiare e di elaborare lo stato affettivo del bambino al fine di restituirglielo con un contenuto meno spaventoso.

Diversamente, se  il contenuto dello stato mentale-emotivo della madre è qualitativamente equivalente allo stato emotivo del bambino, oppure, se la madre non risulta disponibile in questo compito di elaborazione e trasformazione dei pensieri anosciosi del bambino, la percezione che il bambino ha del proprio disagio può tramutarsi in una fonte di paura.

Fonagy e Target (1998) hanno quindi ipotizzato che l’armonia della relazione di attaccamento madre-bambino favorisca lo sviluppo del pensiero simbolico che è cio’ che ci permette di distinguere i contenuti intrapsichici, frutto di nostre elaborazioni, dai fatti appartenenti alla realtà esterna.


Quali sono i modelli di attaccamento prodromici di uno sviluppo psicopatologico di personalità?

Da un punto di vista evolutivo i bambini che tendono a diventare adolescenti antisociali hanno difficoltà nel processo di internalizzazione dei controlli (mancanza di senso di colpa, deficit d’attenzione, difficoltà nel controllo dell’impulsività).

Essendo poco capaci di elaborare gli impulsi, di pensare alle conseguenze delle proprie azioni e di sentirsi in colpa, hanno difficoltà a diventare adolescenti responsabili (Loeber, 1990).

Le difficoltà di controllo del comportamento possono essere spiegate non solo con problemi cognitivi, o con problemi etici (quali meccanismi di disimpegno morale (Caprara, Pastorelli & Bandura, 1995), ma anche con problemi narcisistici (difficoltà a costruire un’idea di sé e di valore) e con difficoltà di costruire legami di attaccamento (insensibilità e freddezza, che sono alla base della mancanza di senso di colpa).

Difatti, il disturbo antisociale può essere collocato all’estremo dello spettro del disturbo narcisistico (Kernberg, 1998).

Dai dati della letteratura risulta sempre più evidente l’associazione tra i disturbi della condotta e modelli patologici di attaccamento. In età prescolare, impulsività e aggressività si legano a modelli di attaccamento ansiosi (Bowlby, 1969), in particolare, l’aggressività e il comportamento antisociale, con il modello di attaccamento ansioso evitante (Sroufe, 1997).

I modelli di attaccamento ansiosi non favoriscono autonomia, competenze sociali, curiosità, fiducia e esplorazione dell’ambiente circostante.

Tale quadro si collega a una diminuzione della fiducia e della stima di sé sin dall’età prescolare portando di conseguenza il bambino a sperimentare, molto spesso, stati di ansia e depressione, momenti in cui l’affermazione di sé risulta raggiungibile con estrema difficoltà, motivo per cui cercherà di esprimersi prevalentemente con atti aggressivi (ibidem).

Difatti, le precoci relazioni di cura non hanno il solo scopo di proteggere il bambino dai pericoli ma anche quello di fungere da organizzatori del funzionamento del suo cervello (Siegel, 2001) attraverso la costruzione di un ambiente in cui si possa imparare la capacità di autocontrollo.

Un buon legame di attaccamento consentirebbe così il padroneggiamento di quell’aggressività considerata sana per uno sviluppo complessivo del bambino-adulto. In uno studio su 310 bambini seguiti dai 18 mesi ai sei anni, Gilliom, Shaw e Beck (2002) hanno esaminato la capacità del bambino di regolare la rabbia in compiti frustranti.

I bambini classificati come sicuri all’età di 18 mesi avevano più probabilità di disimpegnarsi dagli stimoli frustranti.

Il controllo materno non fondato sulla paura aiuta i bambini a spostare l’attenzione su aspetti meno frustranti dell’ambiente mentre le madri rifiutanti e respingenti falliscono nel compito di modellare la distrazione usata per ridurre la frustrazione e al contrario inducono un modello di rabbia come risposta primaria a situazioni di sfida e mezzo per influenzare gli altri.

L’uso da parte delle madri di un’influenza positiva e il minore utilizzo di minaccia, pressione, commenti negativi, rabbia aumenterebbero la probabilità che il bambino sia in grado di manifestare il senso di colpa, che risulta essere un altro importante fattore protettivo verso l’autolimitazione dell’aggressività.


Fattori di rischio e fattori protettivi

Studi longitudinali hanno chiarito come il periodo dello sviluppo in cui si manifestano in maggior misura aggressività e violenza non sia l’adolescenza quanto i primi due o tre anni di vita (Nagin & Tremblay, 1999).

In seguito, con l’acquisizione della socializzazione, l’aggressività decresce per poi elevarsi di nuovo durante l’adolescenza in quanto essa risulterebbe funzionale per la gestione dei cambiamenti fisici e ormonali tipici di questa fase di sviluppo.

L’aggressività diminuisce superata l’adolescenza, ad eccezione di quei casi in cui non vi è stata un’adeguata gestione psicoeducazionale delle tendenze aggressive, o un attaccamento sano genitore-bambino, per cui questa si cristallizza in tratti potenzialmente patologici di personalità.

L’insorgenza precoce è considerata essere uno dei fattori predittivi di maggiore continuità nel tempo per cui molti autori distinguono tra un CAS (comportamento antisociale) a insorgenza precoce che riguarda un piccolo gruppo di bambini di sesso maschile a forte componente genetica e associato a iperattività, scarsa capacità verbali e deficit cognitivi oltre che ad aspetti impulsivi della personalità; e un gruppo di CAS a insorgenza adolescenziale, che spesso va in remissione in età adulta.

I fattori di rischio sono distinti in: fattori individuali che possono essere organici e/o psichici; fattori familiari che contemplano una situazione socio economica svantaggiata, una scarsa competenza educativa, la presenza di comportamenti antisociali nei genitori, un abuso e violenze, una psicopatologia familiare, un uso di sostanze, delle cattive relazioni genitori figli.

Tra i fattori protettivi possiamo identificare: i fattori endogeni come un tipo di temperamento capace di inibire l’attivazione del comportamento e la capacità di adattamento; i fattori esogeni tra i quali il legame stabile con un attaccamento sano, ad almeno un genitore, in grado di sostenere le fisiologiche difficoltà della crescita di un individuo.


Bibliografia

American Psychiatric Association (2014). DSM-5. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Milano: Raffaello Cortina.
Balier, C. (1985). Un’area Terapeutica in Carcere. Adolescenza Terminata, Adoloscenza Interminabile. Roma: Borla.
Bolbwy, J. (1969). Perdita e Attaccamento. L’Attacamento alla Madre. Torino: Bollati Boringhieri.
Caprara, G. V., Pastorelli, C., & Bandura, A. (1995). La misura del disimpegno morale in età evolutiva. Età Evolutiva, 51, 18–29.
Fonagy , P., Steele, M., Steele, H. & Target, M. (1998). Reflective Functioning Manual. Version 5, University college London, London.
Gilliom, M., Shaw, D. S., Beck, J. E., Schonberg, M. A., & Lukon, J. L. (2002). Anger regulation in disadvantaged preschool boys: Strategies, antecedents, and the development of self-control. Developmental Psychology, 38,2, 222–235.
Kernberg, O. F. (1998). Pathological narcissism and narcissistic personality disorder: Theoretical background and diagnostic classification. In E. F. Ronningstam (Ed.), Disorders of narcissism: Diagnostic, clinical, and empirical implications (p. 29–51). American Psychiatric Association.
Loeber, R. (1990). Development and risk factors of juvenile antisocial behavior and delinquency. Clinical Psychology Review, 10 (1), 1–41.
Nagin, D. & Tremblay, R.E. (1999). Trajectors of boys’ physical aggression, opposition, and hyperactivity on the path to physically violent and non violent juvenile delinquency. Child Development, 70, 5, 1881-1996.
Sabatello, U. (2010). Lo sviluppo antisociale: dal bambino al giovane adulto. Una prospettiva evolutiva e psichiatrico-forense. Milano: Raffaello Cortina
Siegel, J. D. (2001). La mente relazionale. Neurobiologia dell’esperienza interpersonale. Milano: Raffaello Cortina Editore.
Sroufe, L.A (1997). Psychopathology as an Outcome of Development. Development and Psychopathology, 9, 251-268.
Winnicott, D. (1974). Sviluppo affettivo e ambiente: studi sulla teoria dello sviluppo affettivo. Trad. Bencini, B. A. Roma: Armando.


Dott.ssa Cecilia Silla Autrice presso La Mente Pensante Magazine
Dott.ssa Cecilia Silla
Psicologa Clinica
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