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Benessere e malattia mentale

Tra obiettivi raggiunti e barriere da abbattere


La salute mentale è, ad oggi, considerata limitatamente importante in molti paesi del mondo sebbene la sofferenza psicologica colpisca una persona su quattro nel corso della loro vita, alterando il funzionamento, il comportamento e i processi di pensiero.

Sono tante le rappresentazioni e le credenze costruite attorno al concetto di salute mentale.

Tali convinzioni sono modellate dalla conoscenza personale, dall’esperienza diretta, dall’influenze dei media, da fattori politici e istituzionali riguardanti le restrizioni passate come, ad esempio, restrizioni sull’assicurazione sanitaria, restrizioni sull’occupazione e sulla possibilità di adozione (Wright, 2011).

Ciascun paese, distinto da una propria cornice culturale, ha cucito su di sé una propria visione di cosa sia il benessere psicologico e di come fare per preservarlo.

Sulla base di come gli individui percepiscono la malattia mentale, metteranno in atto comportamenti di ricerca aiuto o evitamenti qualitativamente diversi.


Prospettive culturali

Gli abitanti delle isole del Pacifico, ad esempio, considerano la malattia mentale il risultato di conflitti familiari.

Secondo uno studio sulla popolazione ebraica, la malattia mentale è vista come un’opportunità per ricevere messaggi divini, uno strumento per ottenere il perdono e per migliorare la propria anima.

Ci sono altre culture poi, per lo più del sud-est asiatico, che considerano la presenza di forze e fenomeni soprannaturali come responsabili dei problemi di salute mentale la cui origine è rintracciabile nell’ira o nella negazione dello spirito o delle divinità (Hassali, 2011).

Le differenze culturali emergono anche quando si parla dei fattori eziologici scatenanti la malattia psichica e su quali siano i fattori di mantenimento della stessa sofferenza.

Studi asiatici hanno rivelato la convinzione che i fattori somatici e organici portino a problemi emotivi; pertanto, un trattamento risolutivo dovrebbe mirare in primis al corpo.

La cultura cinese, invece, spiega i problemi di salute mentale come uno squilibrio delle forze cosmiche e il trattamento d’elezione sarebbe quello di ripristinare l’equilibrio attraverso le relazioni interpersonali, la dieta, l’esercizio e la concentrazione sulle cognizioni.

Risultati simili sono stati rivelati da un altro studio in Nigeria (Naeem, 2012).

In Italia, a più di quarant’anni dalla Legge Basaglia, la 180 del 1978, è ancora aperto il problema di una corretta informazione per superare la discriminazione sul disagio mentale e favorire l’inclusione delle persone che ne soffrono.

Nel nostro Paese una persona su quattro ogni anno ha esperienza di un problema di salute mentale.

Questo delicato tema, sebbene negli ultimi anni abbia avuto un importante diffusione, incontra ancora oggi forti barriere dapprima culturali, successivamente politiche e istituzionali.

Non è stata sufficiente la mole di ricerche finalizzata a dimostrare come ad ogni danno organico ne consegue parimenti un altrettanto danno psicologico.

Perché non c’è salute senza salute mentale.


Salute come concetto multidimensionale

Il benessere mentale è una componente essenziale della definizione di salute data dall’OMS: “Una buona salute mentale consente agli individui di realizzarsi, di superare le tensioni della vita di tutti i giorni, di lavorare in maniera produttiva e di contribuire alla vita della comunità“.

È uno stato cui l’individuo tende costantemente nelle varie situazioni di vita quotidiana e nel quale è in grado di: realizzare i propri bisogni a partire dalle proprie capacità cognitive ed emozionali, esercitare la propria funzione nella società e nella vita di comunità costruendo e mantenendo buone relazioni, far fronte alle esigenze della vita quotidiana, superando le frustrazioni e gestendo le proprie emozioni per raggiungere una soddisfacente qualità di vita, operare le proprie scelte ed esprimere la propria creatività.

La possibilità di perdere il benessere mentale è correlata al nostro corredo genetico così come alle circostanze della vita e allo stress.

L’obiettivo sarà quello di raggiungere una qualità di vita soddisfacente e una piena padronanza delle situazioni ad alto rischio stressogeno.

Pertanto, è bene tener presente che, accanto alla condizione di benessere, una quota di disagio risulta essere una parte integrante di ogni esistenza.

Tutti noi, infatti, sperimentiamo stati di preoccupazione, ansia, paura, irritazione, rabbia; tuttavia, tali stati d’animo diventano importanti quando risulta difficile gestirli e quando le risorse personali sono insufficienti.

Questo il momento in cui tali disagi rischiano di diventare veri e propri problemi di salute mentale.

Purtroppo, non tutti i soggetti affetti da un disturbo mentale decidono di curarsi.

La sofferenza psichica è considerata da molti una manifestazione di debolezza, un disagio da vincere da soli e la richiesta di aiuto a uno specialista viene percepita spesso come una sconfitta, una carenza di volontà.

Ricerche hanno dimostrato che, tra la popolazione generale, è diffusa la tendenza a distanziarsi socialmente dalle persone che soffrono di una malattia mentale.

Questo non favorisce in alcun modo la cura che l’individuo si trova ad affrontare interferendo ulteriormente con la sua condizione clinica (Cherry, 2016).

La presenza di un disturbo mentale implica frequentemente una manifestazione di profonda vergogna.

Il ruolo della vergogna nello sviluppo e nel mantenimento del disagio psicologico degli adulti è molto comune.

Essa può costituire un ruolo chiave nello sviluppo e nel mantenimento del disagio psicologico e dei successivi problemi di salute mentale.

Anche la famiglia ha un ruolo determinante nell’influenzare la percezione e le modalità di reazione in presenza di una sofferenza psichica.

Pensiamo a quei genitori che rifiutano un aspetto di vita, di personalità, di identità dei propri figli, possono essere persone che non dispongono di conoscenze e strumenti per poter comprendere cosa accade, e l’unico appiglio diventa la propria cultura e i dettami di riferimento.

Si comprende bene come, in tali circostanze, l’accettazione di un disagio psichico non costituisca un passo così scontato.

A ciò si aggiunge il fatto che l’opinione pubblica tenda a perpetuare e a diffondere un’immagine densa di pregiudizi riguardo l’individuo che soffre psicologicamente, descrivendolo come una persona “diversa“, che vive esperienze bizzarre e talvolta incomprensibili.

Questo atteggiamento è quello che si definisce “stigma“, una parola che indica l’attribuzione di etichette moralmente negative a un soggetto o una classe di individui.

Etichettare persone come deboli o pazzi ha un impatto enorme sulla loro motivazione a chiedere aiuto o a proseguire un percorso già di per sé non semplice.

La richiesta di maggiori servizi pubblici e a reclutare più professionisti operanti nel campo della salute mentale, in Italia, non ha mai avuto attenzione degna di nota, sebbene negli ultimi 30 anni si è, in qualche modo, cercato di colmare l’enorme carenza che affligge il nostro paese.


Effetti della pandemia sui servizi di salute mentale

A riportare in auge questo delicato tema, e a far sentire la necessità di intervenire anche in merito alla salute pubblica, è stata l’ondata pandemica che ha sconvolto il mondo intero.

Lo shock collettivo dovuto all’emergenza Covid-19, e in particolare l’esperienza del lockdown nella primavera 2020, hanno intuibilmente avuto un impatto elevato sul livello di benessere individuale e sull’incertezza legata al futuro.

Oltre la metà della popolazione dichiara di aver vissuto stati di sofferenza durante i mesi di confinamento; in particolare, il 7% (e oltre l’11% tra gli user di servizi di psicologia) ha vissuto una situazione di disagio estremo.

Il 45% dichiara di non aver richiesto aiuto psicologico ma di riconoscere la possibilità di trarne beneficio (ENPAP, 2020).

Sebbene, da un lato, la pandemia abbia favorito la digitalizzazione del sistema di cura superando le barriere del setting fisico e accorciando le distanze tra terapeuta e paziente, è anche vero che la pandemia ha causato forti disagi economici, durante i quali moltissime famiglie hanno perso il lavoro e tante altre sono sull’onda della continua precarietà lavorativa, tale per cui accedere a un professionista privato non è sempre possibile.

I centri pubblici arrancano a fatica con le lunghe lista d’attesa e con un personale numericamente in difetto rispetto la domanda sorta negli ultimi due anni.

Tale inghippo viene risolto – pur di non bandire concorsi e quindi assumere personale – reclutando professionisti tirocinanti, che riflettono la manovalanza delle strutture pubbliche, la cui necessità di fare esperienza supera, a volte, la reale competenza di fronte la complessità del singolo paziente.

Nessuna salvaguardia per noi giovani professionisti che a fatica ci affacciamo al mondo del lavoro, e ci facciamo carico della sofferenza delle persone, spesso senza avere alle spalle alcuna tutela o la speranza di un posto sicuro.

La mancanza di tutele è anche a carico dello stesso paziente che vede negato, o comunque limitato, il diritto alla salute sancito dalla stessa Costituzione italiana, sebbene sia un diritto sociale del cittadino usufruire di interventi a difesa del suo benessere: è obbligo dello Stato predisporre risorse che favoriscano un’organizzazione sanitaria idonea affinché si possa parlare di prestazioni positive, funzionali a effettivo godimento nazionale.


Dott.ssa Valeria Pecoraro Autrice presso La Mente Pensante Magazine
Dott.ssa Valeria Pecoraro
Psicologa | Specializzanda in Psicoterapia Cognitiva
Bio | Articoli
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