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Buddhismo Vipassana: come raggiungere il nirvana in soli 7 giorni

Ritiro del silenzio in un centro buddhista


Recentemente ho deciso di intraprendere un percorso di evoluzione spirituale più impegnativo di altri al fine di conoscere meglio gli abissi del mio inconscio e magari avvicinarmi anche solo di un gradino al nirvana.

L’esperienza a cui ho preso parte consiste in un ritiro spirituale del silenzio basato sul buddhismo vipassana della durata di 7 giorni in un complesso di templi nella città di Chiang Mai, nella Thailandia settentrionale, presso il tempio Wat Ram Poeng.

Il buddhismo vipassana ha origine in India ed è una delle tecniche meditative più antiche che consiste nel vedere le cose con chiarezza attraverso la mindfulness.

Per raggiungere questo stato mentale, vi sono delle condizioni da rispettare.

Innanzitutto, viene richiesto di rispettare appieno gli insegnamenti di questo tipo di meditazione e non integrare altre discipline durante lo svolgimento del corso.

In questo modo solo alla fine del ritiro una persona può dire in maniera “incontaminata” se la vipassana fa per lei o meno.

Questo articolo intende darvi un assaggio di questo tipo di meditazione cosicché anche voi lettori possiate iniziare a intuire se questa pratica spirituale possa fare al caso vostro.


Questioni logistiche

Da un punto di vista logistico, al check-in bisogna consegnare tutti i dispositivi elettronici (smartphone compreso) e libri, non sono consentite né la lettura né la scrittura.

I pasti hanno luogo solamente due volte al giorno per seguire un digiuno intermittente giornaliero che segua lo schema 20/4.

Le ore di sonno concesse ammontano a non più di sei. Non è consentita alcuna forma di comunicazione, se non per il confronto con il guru o con il maestro spirituale.

Il dress code prevede un total white, biancheria intima compresa.

Il primo giorno, dopo aver consegnato i propri oggetti di valore ed essersi abbigliati di bianco, ha luogo la cerimonia di apertura che sancisce l’inizio effettivo della pratica.

Da qui in avanti, fino alla cerimonia di chiusura che avrà luogo l’ultimo giorno del ritiro, la giornata tipo è strutturata come segue.

Alle 4 del mattino si viene svegliati dalle campane, alle 4:20 ci si ritrova in uno dei molteplici templi del complesso per prostrarsi a Buddha, cantare in Pali (lingua di Buddha) ed eseguire la prima meditazione della giornata.

Alle 06:30 viene servita la colazione, cibo thai cucinato in malo modo proprio perché l’unico scopo del cibo deve essere la sussistenza del corpo fisico, e non il suo piacere.

Le 10:30 sono l’ora del pranzo, stessa storia.

Alle 15:00 si incontra il guru per riportare l’andamento delle ultime 24 ore e dalle 22:00 ci si può coricare. Prima di questo orario non è possibile dormire perché, come anticipato, le ore massime di sonno ammontano a sei.


La pratica

Bene, se questa routine sembra già un calvario, posso garantirvi che sia per me che per i miei compagni di meditazione (ci siamo confrontati al termine della pratica) questo non è stato per nulla il problema. La parte più ardua è stata il resto della giornata.

Durante le restanti ore del giorno si meditava in due modalità alternate e ripetute: walking meditation e sitting meditation.

La prima prevede che partendo in posizione eretta si prenda consapevolezza di essere in piedi e di ogni movimento che si sta per fare coi piedi.

Da qui si iniziano a fare piccoli passettini in avanti per completare un percorso di due metri mediamente in 10 minuti, e poi si torna indietro fino allo scadere del timer di 40 minuti (col passare dei giorni il guru aumenta la durata delle meditazioni. 40 minuti è il massimo che si raggiunge dopo circa una settimana).

Per darvi un’idea di quanto fosse lento il movimento mi è capitato più di una volta che una mosca mi si posasse sulle dita dei piedi e il mio passo era talmente lento e attento da risultare per lei praticamente impercettibile.

Così, incurante del mio movimento, vi rimaneva adagiata anche per 10 o 15 minuti.

Al termine della walking meditation, si inizia con la sitting meditation.

In posizione a fior di loto ci si concentra sul respiro per altri 40 minuti.

Vi lascio solo immaginare il dolore fisico che si prova a mantenere la stessa posizione per tutto questo tempo più volte al giorno.

Vi starete chiedendo perché tutto questo.

Ebbene, secondo il buddhismo vipassana, la privazione dei bisogni fisici (cibo, sonno, comunicazione, stimoli esterni ecc…) è l’unico modo per far emergere l’inconscio.

La pratica è effettivamente un continuo susseguirsi di sensazioni contrastanti, e lo scopo è quello di dare un nome a queste sensazioni/emozioni nel momento in cui emergono così da riconoscerle e non identificarsi più con loro.


La mente pensante [Errata corrige: la mente ingannevole]

Vengo subito al dunque e vi porto un esempio di un’esperienza (estremamente) reale che ho vissuto circa al terzo o quarto giorno del ritiro.

Riporto testualmente quello che mi sono scritto in quel momento nel diario personale.

Nonostante all’inizio non fosse consentito, dopo qualche giorno il maestro spirituale ci ha dato il nullaosta per mettere nero su bianco i nostri pensieri così da esprimere al meglio le emozioni dell’attimo.

Qui di seguito riporto letteralmente i miei scritti di quel giorno:

Qualche ora fa ho esperito qualcosa di terribile. In seguito a una sessione di meditazione (walking + sitting) che mi è piaciuta più delle altre, sono entrato improvvisamente in uno stato di paranoia. La mia mente ha iniziato a pensare di essere come Leonardo Di Caprio in Shutter Island. Più consideravo questa possibilità, più tutto iniziava ad avere senso. Ora fatico a fare esempi concreti in quanto nel momento in cui si tenta di spiegare la paranoia a posteriori, tutto il senso che quelle forme pensiero avevano poc’anzi cessa improvvisamente. Sono passato dal voler esigere il mio smartphone per videochiamare un amico e farmi giurare di non essere pazzo mentre lo guardo negli occhi, al voler condividere questa esperienza con il monaco maestro (Phra Sukito) con il rischio che mi facesse ricoverare in un istituto psichiatrico nel caso non ci fossi già. Presi coraggio e gliene parlai.

Andrea: “After my last set of meditation I started experiencing paranoia.”
Phra Sukito: “Paranoia?”
Andrea: “Have you ever watched the film Shutter Island?”
Phra Sukito: “I have.”
Andrea: “Well, I started thinking that this could be a psychiatric institute, and me the patient.”
Phra Sukito: “That is the feeling of fear that came up.”
Andrea: “Does it mean that I’m subconsciously afraid of being crazy?”
Phra Sukito: “Not necessarily.”
Andrea: “I see. I used to have only one fear. I was afraid of mice. So, I once obliged myself to stay close to them in order to overcome my only and last fear.”
Phra Sukito: “You cannot overcome fear.”
Andrea: “Indeed. I buried it and it came up even stronger.”
Phra Sukito: “Exactly.”

Ora tutto questo sembra oltre i limiti dell’assurdo anche a me, ma posso garantire che fino a due ore fa era fottutamente reale. Tuttavia, è bastato dare a quella sensazione il nome di paura perché sparisse all’improvviso.

Dopo aver scritto queste pagine mi sono recato nuovamente nel luogo in cui è iniziata la paranoia per far sì che riemergesse e la potessi guardare con occhi più saggi, senza identificarmici. Ha funzionato. È riemersa, seppur con una potenza milioni di volte inferiore alla prima e non ho nemmeno dovuto fare un lavoro cosciente di non-identificazione in quanto era chiaro che fosse qualcosa di estraneo a me.

In aggiunta, questo secondo “round” è servito a comprendere che non si trattava solo di paura, bensì anche di ansia.

Molte volte dopo aver superato la paura dei topi mi è capitato di dire di essere un tipo senza paure e senza ansia. Beh, ora è chiaro che le avevo solo messe sotto terra.

D’ora in poi potrò invece dire: “Sono in grado di riconoscere la sensazione di paura/ansia e dispongo degli strumenti per non identificarmi con la stessa” .

Come questa ho vissuto una moltitudine altre esperienze tutte diverse tra loro.

Ho deciso di riportare solo la più forte per evitare di condizionare la vostra esperienza personale nel caso un giorno decideste di intraprendere questo tipo di percorso spirituale.


Wat Ram Poeng sì o no?

Come avrete potuto intuire dal mio racconto, a mio avviso Wat Ram Poeng è un’esperienza estremamente dicotomica che alterna momenti di frustrazione e irrequietudine a momenti di assoluta bellezza e amore incondizionato per il creato.

Wat Ram Poeng è un luogo incredibile, si ubica fisicamente al confine occidentale della città dei templi di Chiang Mai, ma qui dentro si è catapultati in una dimensione che poco ha a che vedere col mondo per come lo conosciamo.

Il riferimento di mia conoscenza che più si avvicina a questo luogo surreale è il film Nosso lar (Portoghese: la nostra dimora) tratto dall’omonimo scritto dello spiritista e contattista brasiliano Chico Xavier.

Di questo film consiglio altamente la visione (disponibile su YouTube) perché, oltre a essere il mio film preferito, a parere di molti medium è una fedele rappresentazione della vita dopo la morte.

Ho voluto fare questo parallelismo col centro vipassana non solo perché ricorda moltissimo Nosso lar (tutti vestiti di bianco come analogia più palese), ma proprio per la dicotomia a cui accennavo.

Chantal Dejean, scrittrice e conferenziera nell’ambito spirituale, sostiene che quando il nostro corpo fisico cessa di esistere, ci ritroviamo in una dimensione che vibra al nostro medesimo stato di coscienza e dove siamo tenuti a elaborare i nostri lati in ombra. Wat Ram Poeng non si distanzia molto da tutto ciò.

Quello che all’apparenza sembra luce, amore e fratellanza, cela in sé tutta la sofferenza che la rigorosa disciplina buddhista vipassana persegue. Quello che da fuori è un gruppo di anime di luce, abbigliate di bianco, intenzionate a innalzare le proprie frequenze per elevarsi al divino, comporta come yin e yang il lato opposto della medaglia.

L’inginocchiamento al Buddha (Sedere poggiato sui talloni per gli uomini e sulle piante dei piedi per le donne, per intenderci) con le mani in posizione “anjali” è solo una delle molteplici posizioni che solo chi l’ha provata può comprendere il dolore fisico che possono comportare anche soli pochi minuti in questa posizione.

Posso però garantirvi che i benefici originati da questa esperienza superano di gran lunga il dolore e la sofferenza.

Quindi se questo mio racconto ha smosso anche solo un briciolo di curiosità in voi a intraprendere questo percorso per ripulirvi un po’ il karma e risparmiarvi potenzialmente qualche anno in purgatorio, ecco qui il link del centro per approfondire: https://www.watrampoeng.com/vipassana-course.


Post scriptum

Desidero raccontare due aneddoti/curiosità che non sono riuscito a integrare nell’articolo ma che desidero condividere con voi lettori.

Curiosità 1: la mattina del primo giorno del ritiro spirituale, prima di recarmi al tempio, feci il check-out dall’hotel in cui soggiornavo. Il receptionist mi chiese quale sarebbe stata la mia prossima destinazione e io gli raccontai del ritiro.

Egli esclamò con: “Be careful, it’s full of spirits over there!”.

Racconto questo aneddoto perché credo che dica molto su questo popolo ed è uno degli aspetti che più apprezzo di questi luoghi.

Ciò che in occidente sarebbe visto dai più come un qualcosa di (par)anormale, qui è un modo del tutto lecito e naturale di concepire il mondo. Nel mondo occidentale fatico a immaginarmi un receptionist durante il check-out a dissuadere qualcuno dal recarsi in un luogo perché infestato.

Curiosità 2: in Thailandia, prima dell’avvento del sistema scolastico statale, era consuetudine che ragazzi e bambini frequentassero i templi dove i monaci insegnavano loro a leggere e scrivere, così come l’arte della meditazione.

Ancora oggi molti ragazzi (maschi) provano a trascorrere un periodo di tempo solitamente della durata di qualche mese in un tempio buddhista prima di accingersi alla vita adulta/coniugale. In questo modo possono apprendere gli insegnamenti buddhisti della pazienza, della lealtà e della buona condotta in generale.

Post post scriptum: questo articolo intende riportare un’esperienza personale e conseguentemente soggettiva. Mi scuso per qualsiasi inesattezza circa gli insegnamenti di questa branca del buddhismo.

Questi sono gli insegnamenti del buddhismo vipassana per come sono arrivati a me.

La versione in Inglese di questo articolo è disponibile qui.


Andrea Ferri Autore presso La Mente Pensante Magazine
Andrea Ferri
Interprete | Traduttore | Nomade Digitale
Bio | Articoli | Video Intervista AIPP Febbraio 2024
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