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Dipendenza Affettiva: la principessa che aveva fame d’amore

Come riconoscere la “love addiction” e iniziare a guarire


Può una favola permettere di riconoscere la dipendenza affettiva e mostrare anche gli strumenti per uscirne?

Può.

Maria Chiara Gritti, psicoterapeuta e fondatrice del centro Dipendiamo, ne La principessa che aveva fame d’amore (Sperling & Kupfer), raccontando la storia di Arabella, principessa che il destino ha voluto figlia di due genitori incapaci di amare, ci parla in maniera delicata e potente di uno dei disturbi annoverati tra le new addiction, ovvero quei comportamenti disfunzionali dettati dalla dipendenza non da una sostanza, ma da un’attività socialmente accettata.

Ce ne parla in maniera delicata perché i drammatici sintomi della dipendenza affettiva vengono edulcorati attraverso il linguaggio delle favole; ma le sue parole arrivano potenti perché, paradossalmente, proprio questo linguaggio porta il lettore ad abbassare le sue difese, ponendolo senza preavviso davanti a parti oscure di sé e obbligandolo a farci i conti.

Arabella è figlia di Rosa e Alfio, la prima nutrita solo con il pane del sacrificio, il secondo esclusivamente con quello dell’intelligenza.

Nessuno dei due ha mai assaggiato il pane dell’Amore, cosicché, quando nella loro vita compare Arabella, una splendida bambina che, come tutti i bambini, ha un gran bisogno di nutrimento emotivo, entrambi si mostrano totalmente impreparati.

Nonostante l’impegno, non riescono a offrire alla figlia ciò che le serve per crescere forte e felice, generando in lei un vuoto che la porterà a cercare freneticamente fuori da sé stessa quel pane che le serve per sopravvivere.

La sua intuizione proverà a guidarla, ma quando la voragine l’avrà quasi completamente risucchiata, non riuscirà più a farsi ascoltare. La principessa, che a un certo punto non si riterrà più tale, darà credito solo a quell’oscura cavità che la incalza, che la spingerà ad affannarsi, a mostrare i suoi talenti a chi non è in grado di apprezzarli e a dare tutto quello che ha in cambio di niente.


Le verità sulla “love addiction”

Le storie di non amore sono tante: relazioni tormentate, giochi di potere in cui i partecipanti non vedono che sé stessi e il vuoto che li attanaglia, e dove l’altro rappresenta solo lo strumento per colmarlo.

Nonostante la dipendenza affettiva possa avere mille sfaccettature diverse, però, Maria Chiara Gritti ci mostra come ci siano alcuni capisaldi che la caratterizzano.

  • La love addiction è un disturbo che si tramanda di generazione in generazione: se un bambino o una bambina non vengono adeguatamente nutriti da un punto di vista emotivo, avranno enormi difficoltà ad amare chi verrà dopo di loro. In questo modo si innescherà una catena difficile da spezzare, a meno che non si cominci a prendere consapevolezza del problema.
  • La persona poco amata farà di tutto per colmare quel vuoto: da una parte darà libero sfogo alla fantasia, idealizzando persone e situazioni; dall’altra la fame d’amore sarà talmente grande che, pur di mettere qualcosa sotto i denti, si accontenterà delle briciole, ovvero di relazioni in cui non farà altro che dare senza ricevere nulla in cambio. Allo stesso tempo verrà alimentato il senso di colpa, la sensazione di non essere mai abbastanza: sarà quindi molto difficile accettare che, per quanti sforzi faccia, l’altro potrebbe non essere in grado di amarla.
  • Le persone che soffrono di questo disturbo hanno imparato a essere amate “a condizione che”: avendo avuto dei genitori incapaci di dimostrare affetto, pur di essere amate, hanno messo a tacere i propri bisogni, sviluppando in maniera esponenziale le parti “migliori” di sé – altruismo, empatia, gentilezza – e mettendo da parte quelle “detestabili” – come la rabbia, per esempio –, a discapito della propria autenticità.
  • Il modello relazionale interiorizzato da bambini verrà riproposto in età adulta: sarà molto facile quindi scambiare per amore relazioni che con questo sentimento non hanno niente a che vedere.

È possibile guarire

Spesso le relazioni instaurate dalla persona che soffre di dipendenza affettiva sono basate sull’annullamento dei propri bisogni e sul completo soddisfacimento di quelli degli altri.

La conseguenza diretta di questo tipo di condotta, soprattutto se protratta nel tempo, sarà un progressivo impoverimento emotivo della persona dipendente, che, pur di piacere, rinuncerà a delle parti di sé, con enormi danni per la sua dimensione più autentica e, di conseguenza, per il suo benessere.

Da questo dolore, però, è possibile riemergere: per quanto terribile sia, è necessario affrontare quel vuoto che logora l’anima, cercando di comprendere da dove questo provenga.

Solo così si avrà la possibilità di scorgere, dietro Vuoto, una creatura famelica e terrificante, la bambina o il bambino feriti e di iniziare finalmente a prendersene cura.

È necessario che la parte adulta cominci a nutrire in modo adeguato quella infantile, impedendole di elemosinare briciole da chi non è disposto ad amarla.

Bisognerà avere il coraggio di fare una bella scorpacciata di pane della verità, che farà crollare i castelli di carta costruiti negli anni a suon di illusioni; si dovranno poi curare le proprie ferite con il pane della dignità, dell’amor proprio, della creatività, del piacere e del divertimento.

Solo in questo modo sarà possibile entrare in contatto con tutte le parti di sé, quelle gradevoli e quelle che non lo sono, e godere della ricchezza che ognuna di esse può offrire.

A questo punto la ricerca di una relazione sentimentale passerà in secondo piano. Ben venga se questa arriva con una persona all’altezza di chi ha finalmente ritrovato sé stesso.

Se non arriverà, andrà bene ugualmente: l’essere umano non sarà mai solo se non è lui stesso ad abbandonarsi, e non sarà mai denutrito se sarà in grado di trovare dentro di sé tutto quello che può renderlo felice.


Giulia Adamo Autrice presso La Mente Pensante
Giulia Adamo
Autrice
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