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Una finestra sul mondo: il tempo sospeso dei disturbi del comportamento alimentare

Una possibile analisi psicologica

Image by annie spratt on Unsplash.com


I disturbi del comportamento alimentare sono disturbi mentali che comportano gravi danni somatici con un rischio di morte 12 volte maggiore di quello dei soggetti normali della stessa età.

L’anoressia è il più grave di questi disturbi, il più difficile da curare e quello con le ripercussioni più pesanti (spesso croniche) sulla famiglia e sul paziente. Buona parte dei pazienti con DCA (chiameremo per semplificare in tal modo i disturbi del comportamento alimentare), nel corso del loro disturbo, si spostano spesso da un quadro sintomatico tipo anoressia ad un quadro tipo bulimia (e viceversa).

È indubbio che nella cultura occidentale esista un forte condizionamento verso la magrezza, ma ulteriori fattori individuali fanno sì che solo una minoranza sviluppi un quadro clinico conclamato.

Tali problematiche sono in crescente espansione, soprattutto tra gli adolescenti di sesso femminile, e ultimamente anche di sesso maschile, ed esprimono una sofferenza che coinvolge la sfera psicologica e quella relazionale con forti influenze socioculturali sul ruolo della donna in una società che mette in vetrina corpi perennemente giovani ed eccessivamente magri.

Inoltre, talvolta le problematiche psicologiche individuali esprimono una difficoltà di crescita e del concetto di tempo un “tempo sospeso”. (Il tempo sospeso. Anoressia e bulimia tra individuo, famiglia e società, Onnis, editore Angeli).

Evidenze empiriche, derivanti da studi ad orientamento psicodinamico presenti in letteratura, suggeriscono come i disturbi alimentari siano associati a problemi caratteriali che conseguono a distorsioni delle relazioni oggettuali precoci, ossia ad un arresto dello sviluppo psicologico del bambino in fasi precoci di utilizzo dell’oggetto transizionale, a scapito della capacità di usare l’oggetto nel mondo esterno (Schwartz 1986, Sours 1980, Humphrey 1986).

I complessi e dinamici processi di sviluppo dell’individuo e le sue possibili distorsioni, in particolare l’adolescenza, periodo in cui tipicamente insorgono i disturbi alimentari sono utili a comprendere la psicopatologia dell’anoressia. La comparsa in adolescenza di un disturbo alimentare mette in rilievo come l’individuo si sia trovato a fronteggiare i processi e i cambiamenti propri di questa fase di sviluppo senza disporre degli strumenti psichici adeguati.

Secondo queste teorie, la patologia appare quindi come difesa contro le trasformazioni corporee della pubertà e la rinnovata emergenza delle pulsioni sessuali. I bisogni del corpo vengono attivamente negati. Le anoressiche (parliamo tendenzialmente al femminile visto i dati in letteratura), vanno così incontro a una grave regressione orale. Il cibo diviene il centro di ogni interesse cosciente. Diversi autori sostengono che le relazioni con il cibo delle pazienti anoressiche, traducano ed esprimano la relazione con la madre. (Kestemberg e Decobert 1972).

La letteratura evidenzia una qualità indifferenziata della relazione madre-figlia, che impedisce una chiara differenziazione tra i bisogni e i desideri propri e quelli della madre e di un’immagine del corpo in via di trasformazione sentito in maniera confusiva come appartenente alla madre, e vissuto come persecutore, inaccettabile perché rappresenta sia l’oggetto materno buono, la cui conservazione è vitale per il Sé, sia l’oggetto “cattivo”, la cui conservazione è mortale (Bruch,1982).

Molti lavori collocano la genesi del disturbo anoressico in un fallimento della relazione precoce madre-bambino che ostacola il costituirsi di un oggetto interno materno sufficientemente stabile e “buono”, capace di contrastare le angosce persecutorie legate agli impulsi distruttivi diretti contro l’oggetto d’amore. Ciò compromette la capacità di discriminare i propri stati interni, lo sviluppo di un senso di coesione di Sé e di fiducia nel mondo esterno, percepito come inaffidabile e ostile.

Caratteristica clinica prevalente nell’anoressia è la presenza di un’alterata percezione del peso e della propria immagine corporea. L’aspetto tipico dell’anoressia nervosa è il rifiuto di mantenere il proprio peso corporeo ad un livello pari o superiore a quello considerato sufficiente in rapporto all’età e all’altezza del soggetto; il peso può essere controllato mediante il rifiuto di alimentarsi e l’eccessivo esercizio fisico, o con condotte eliminatorie quali il vomito auto-indotto e l’uso improprio di lassativi e diuretici.

Questi disturbi costituiscono un tentativo di strenua lotta “per separare il proprio corpo da quello della madre”, nell’ambito di un complesso processo di separazione intrapsichica dalla madre, tappa fondamentale per operare l’integrazione dell’immagine del corpo fisicamente maturo nella rappresentazione di sé stessi.

Come ha evidenziato Maria Selvini Palazzoli (1983) nell’anoressia, la paziente non è spaventata dal cibo ma “ha paura del proprio corpo, vive la nutrizione come potenziamento del corpo a spese del suo Sé”. Per l’anoressica il corpo rappresenta un nemico, sul quale occorre esercitare un tentativo disperato di dominio: il proprio corpo appartiene alla madre (ad una madre non sufficientemente separata da sé) oppure è percepito come un nemico, un corpo estraneo separato da sé.

I contributi forniti da Winnicott, Bion e Ferenczi sull’importanza della “madre-ambiente” nei primi stadi di sviluppo del bambino hanno messo in evidenza come la discontinuità progressiva nella formazione di un involucro narcisistico permetta all’Io di separarsi dall’oggetto e di svilupparsi in modo armonioso.

Nella pratica clinica il funzionamento difensivo improntato al Falso Sé si traduce nell’impossibilità, caratteristica delle pazienti anoressiche, di percepire il proprio corpo reale e le sensazioni che da esso provengono, in particolare la fame. La fame è ricercata, come segnale rassicurante sul quale esercitare controllo e dal quale trarre “il piacere dell’insoddisfazione”, in cui la corrente narcisistica dell’investimento è tinta di valenza altamente autodistruttiva ed è in grado di azzerare ogni altra sensazione.

Un ruolo fondamentale della psicopatologia anoressica è svolto dall’elaborazione delle esperienze di perdita e dalla problematica depressiva, affrontata nell’ambito delle reazioni di lutto. (S. Freud, 1905; A. Freud, 1957; Deutsch, 1944; Jacobson,1954)

Nei contributi teorici più̀ recenti, riguardanti le relazioni oggettuali e le patologie narcisistiche, vengono approfondite altre perdite tipiche dell’adolescenza, tra cui il lutto del corpo infantile (Laufer,1966). E ancora il lutto dell’immortalità dei genitori e la conseguente rinuncia dell’organizzazione onnipotente del Sé infantile. (Ladame, 1981)

Poiché l’adolescente possa essere in grado di affrontare un “senso di continuità di sé” come “metafora che tiene dentro i cambiamenti e le perdite” (Bertolini, 1998), occorre che abbia acquisito con la sua maturazione i necessari strumenti psichici per affrontare ed elaborare il fisiologico senso di perdita, adeguatamente supportato dalle figure significative di riferimento fin dalle fasi precoci del suo sviluppo. Altrimenti i soggetti svilupperanno una fragilità psicologica, risultante da una precoce distorsione dello sviluppo, che potrebbe causare un’anoressia in adolescenza e preadolescenza.

La soluzione alla situazione verificatasi in adolescenza, sembra essere l’anoressia, come rinuncia all’adolescenza, alla separazione e alla sessualità matura, attraverso l’affamare il corpo e bloccarne la crescita. L’anoressia nervosa è una patologia psichiatrica a patogenesi complessa (Onnis, 2004), in cui come detto pocanzi, entrano in gioco diversi fattori socioculturali, psicologici individuali e relazionali, in particolare familiari.

In letteratura si è sviluppata una molteplicità di modelli teorici inerenti all’eziologia dell’anoressia mentale. Un gruppo di contributi di ricerca si è focalizzato sulla valutazione dello stile di accudimento percepito e della qualità delle cure genitoriali, valutati attraverso strumenti self-report, e ha messo in luce come le ragazze anoressiche descrivano le proprie famiglie in termini complessivamente negativi, riferendo meno coesione e flessibilità rispetto alle adolescenti senza patologie psichiatriche. (Palmer et al., 1988; Bulik et al, 2000; Laporte et al., 2001; Guttmann, Laporte, 2002; Bonne et al., 2003)

Nei disturbi del comportamento alimentare, e nell’anoressia in particolare, durante l’adolescenza, numerosi studi hanno evidenziato la prevalenza di modelli d’attaccamento insicuro e di indici di irrisoluzione rispetto ad un lutto o un trauma tra le pazienti anoressiche e le loro madri, sottolineando l’importanza dei meccanismi di trasmissione transgenerazionale. (Steele, Steele, Treasure, 2001; Ammaniti, Mancone, Vismara, 2001; Ramacciotti, Sorbello, Pazzagli, Vismara, Mancone, Pallanti, 2001)

Il terzo focus riguarda il modello teorico più̀ accreditato è la teoria familiare, nei due filoni sistemico-relazionale che mettono in luce modalità transazionali delle famiglie anoressiche. (Selvini Palazzoli, 1988; 1998) e quello psicosomatico (Minuchin, 1980).

Questi autori sostengono l’esistenza di caratteristiche strutturali e dinamiche peculiari nelle famiglie di pazienti anoressiche, in cui una facciata di successo e di competenza appare mascherare importanti carenze come l’incapacità di affrontare conflitti, l’invischiamento nelle relazioni interne alla famiglia e l’isolamento rispetto all’esterno, la triangolazione della figlia nel rapporto di coppia, l’attaccamento a schemi di comportamento e i miti familiari trasmessi dalle precedenti generazioni.

Si osserva come in tali famiglie la figlia con anoressia occupi un punto di articolazione fra i genitori e i suoi sintomi siano frequentemente la forma di espressione di profondi conflitti familiari non elaborati e difficoltà negli scambi familiari. Tale aspetto rappresenta una minaccia per l’equilibrio del sistema familiare e il senso di insicurezza e sfiducia nella figlia anoressica. (Crisp, 1983)

L’irrompere della malattia assume di solito un carattere di gravità, talora di catastrofe, come un trauma che costringe tutta la famiglia ad una riorganizzazione. La bambina, prima “perfetta”, fin troppo buona e “autonoma”, mette gravemente in discussione l’investimento narcisistico di cui è stata sempre oggetto: non può più realizzare i sogni e le aspirazioni mancate e suscita invece un intenso senso di impotenza.

All’interno di questi sistemi familiari lo spettro piuttosto ampio di modalità relazionali e di investimento non sembra permettere una discriminazione di propri affetti da quelli degli altri membri e ciò sembra rendere impossibile la separazione.

Altri autori come Bruch (1973), Palazzoli (1982), Bemporad e Ratey (1985) hanno riscontrato dei pattern più comuni presenti in molte famiglie di pazienti anoressiche: il diniego di sé, la rigidità e il perfezionismo (simili nella madre e nella figlia). Jacobs (2008) pone come obiettivo della sua ricerca quello di identificare il cluster dei tratti comportamentali che si possono ritrovare in un campione di pazienti anoressiche e loro genitori.

Sono stati distinti tre gruppi in base alla gravità utilizzando come categoria la magrezza, l’insoddisfazione riguardo al corpo, il perfezionismo, il nevroticismo, i tratti ansiosi e l’evitamento del dolore. In queste famiglie la madre appare devota e attenta ai bisogni altrui, perfezionista nel proprio comportamento secondo rigidi standards, è coartata nell’esprimere i propri bisogni, portando in evidenza il sacrificio di sé come elevata virtù.

Il padre è tendenzialmente bisognoso, dipendente, spaventato, anche se può esercitare autorità in famiglia. Egli richiede lealtà e deferenza alla moglie e ai figli, riesce con successo in ambito lavorativo (spesso iperinvestito), maschera problemi di autostima e di fiducia di base, non diversi da quelli che sottostanno al comportamento materno.

I conflitti parentali sono motivati da una eccessiva dipendenza, da cui entrambi si sentono minacciati e così come la maturità sessuale femminile appare minacciosa e indesiderabile, dal momento che diventare donna sembra implicare una condizione di subordinazione e impotenza in un mondo di uomini richiestivi e potenti. (Bruch, 1973; Palazzoli, 1982; Bemporad e Ratey, 1985)

Nelle famiglie di pazienti anoressiche, la paura dei conflitti e la confusione accentuano la percezione delle figlie della fragilità dei genitori e l’insorgenza del disturbo rinforza tale meccanismo che minaccia l’equilibrio familiare nel suo carattere patogeno.

La letteratura è ricca di riferimenti sulla figura paterna di ragazze anoressiche: alcuni autori parlano di padri indifferenti o autoritari, incapaci di separare la figlia dalla madre che è anche una moglie negletta e poco apprezzata (Varela Viglietti 2001), di padri troppo protettivi (Role- Warren 2001), di un deficit della funzione edipica paterna che conduce al ritiro anoressico (Nucara 1999), di un padre “periferico” e di una madre “ipercoinvolta” (Taffel e Masters 1989), di una coalizione madre-figlia contro il padre (Waller Calam et al. 1989) e della maternalizzazione del padre (Kestemberg, 1972) inteso come padre scarsamente differenziante che si propone come una “madre più buona della madre” (anziché come terzo) che ammortizza le eccessive richieste e i divieti materni. In modi diversi e con diverse sottolineature, espressioni verosimili della molteplicità e specificità delle costellazioni individuali e familiari, i contributi di numerosi autori convergono nell’evidenziare nei disturbi alimentari una carenza significativa della funzione paterna.

Spesso nelle famiglie con modelli disfunzionali rigidi o dove si evita il conflitto, è generalmente presente una parziale o totale inibizione dell’espressione emozionale, un’incapacità di verbalizzare le proprie emozioni.

Nell’ottica sistemica, il sintomo anoressico rappresenta quindi il tentativo di ritagliare una sfera di autonomia intorno alla gestione del cibo; un’esigenza di differenziazione da un corpo familiare che sembra totalmente unitario, espressa attraverso il rifiuto o l’espulsione del cibo; una protesta violenta e provocatoria, attraverso lo sciopero della fame, per affermare un’identità che non da sfogo al conflitto; una richiesta tacita e ambivalente che esprime da un lato il bisogno di crescita e di differenziazione, dall’altro la paura di crescere, legata ai problemi di svincolo. Onnis (2004) descrive la difficoltà di crescita utilizzando la metafora del “tempo sospeso“.

Nella sospensione del tempo di crescita, i vissuti delle persone con disturbi alimentari esprimono una volontà determinata, anche se illusoria, di risolvere l’ambivalenza tra il desiderio di individuazione e la paura o la difficoltà di assumere un’identità matura.

Il tempo si ferma non solo per la persona che manifesta il sintomo anoressico, ma per tutta la famiglia che può, in questo modo, rimanere sempre fedele al mito di unità e perfetta armonia ereditato a livello transgenerazionale, in cui ogni processo di autonomia e individuazione evoca angoscia.

L’anoressia, così come i disturbi alimentari in generale, sono stati da sempre per lo più associati a un disturbo prettamente femminile, ma è evidente un aumento delle difficoltà alimentari anche nella popolazione maschile.

Ed è proprio per questo motivo che bisogna prediligere prevenzione e informazione oltre che educazione alla salute mentale e fisica.


Dott.ssa Fabiola Raffone Autrice presso La Mente Pensante Magazine
Dott.ssa Fabiola Raffone
Psicologa Clinica | Criminologa | Grafologa | Esperta in Psicodiagnostica |
Terapista della riabilitazione psichiatrica | Psicoterapeuta Cognitivo Comportamentale i.f.

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