
In Cerchio con la Morte
Onorare la vita oltre la vita
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Alcune tradizioni spirituali dicono che se guariremo le nostre ferite avremo guarito le ferite delle sette generazioni che ci precedono e delle sette generazioni che vengono dopo di noi. Perché ciò avvenga abbiamo bisogno di stabilire un nuovo modo di entrare in connessione con la dimensione temporale. Si tratta di guardare le situazioni dolorose del passato da un altro punto di vista, trarre le risorse adeguate dal momento presente e costruire un futuro di speranza. In questo modo potremo vivere una vita piena e trasformare la nostra relazione con la morte.
Ri-significare il passato: il dolore del lutto come fonte di vita
Nel 2004 mi trovavo in una regione remota del Guatemala per prendere parte ad un momento di riconciliazione collettiva in seguito alla guerra civile che, durata fino agli inizi degli anni ‘80, aveva causato centinaia di migliaia di morti e di desaparecidos (=persone scomparse). Nel corso di quella guerra uomini, donne e bambini vennero torturati e seppelliti in fosse comuni.
In quel paese fui testimone del dolore del vecchio Antonio, un uomo, che ventidue anni prima, aveva perso la figlia poco più che diciottenne e due nipoti di pochi anni di età. Nel suo villaggio, grazie alla collaborazione di organizzazioni internazionali per i diritti umani, stava avvenendo la riesumazione da una fossa comune perché i resti fossero riconosciuti dai propri familiari. Il vecchio Antonio si trovò di fronte ad un cumulo di ossa e con difficoltà riuscì a distinguere quelle che appartenevano a sua figlia e quelle che appartenevano ai suoi nipoti. Fu un passaggio doloroso che gli permise, finalmente, di vivere il rituale della sepoltura e richiamare dentro di sé l’amore con cui avrebbe dato l’ultimo saluto alle persone che amava.
Per tutti i familiari che erano chiamati a riconoscere i resti dei propri cari e per tutti gli osservatori internazionali fu un rituale lacerante ma divenne anche un’occasione per transitare verso la dimensione del lutto e della riconciliazione. Apprendere a sostare in quello spazio fu un grande insegnamento per me e si è trasformato in una consapevolezza che ripeto come un mantra in ogni spazio di accompagnamento alla sofferenza: non possiamo risolvere il dolore altrui ma possiamo accompagnare il dolore come testimoni compassionevoli.
Quando fronteggiamo quello spazio di vuoto e di oscurità che osserviamo nel volto di una persona che vive l’esperienza della morte attraverso la perdita di una persona cara possiamo riconoscere che, in fondo, quell’esperienza appartiene anche a noi. Quel vuoto che sentiamo è anche il nostro vuoto, in quanto tutti condividiamo la stessa umanità e la stessa paura della morte. Se tentiamo di risolvere il dolore altrui ci troveremo, in realtà, di fronte alla nostra difficoltà di attraversare il dolore. Se non riusciamo a sostare di fronte al dolore altrui, dovremo iniziare a imparare a sostare di fronte al nostro dolore.
Non possiamo cambiare il passato. Non possiamo tornare ad abbracciare le persone che hanno superato la soglia della morte. Ma possiamo farle rinascere ricordando con gratitudine la bellezza che hanno portato nella nostra vita. In questo modo il dolore del lutto diventerà un promemoria dell’amore e uno strumento di riconciliazione con la vita.
Respirare il presente: la comunicazione in cerchio come spazio di consapevolezza della morte
Di fronte ai conflitti presenti nella vita quotidiana la maggior parte delle persone risponde con meccanismi arcaici. In ogni spazio della vita pubblica o privata, quando emerge una differenza di punti di vista e di strategie di azione spesso attiviamo il cervello limbico, la parte primitiva del nostro cervello che centinaia di migliaia di anni fa era indispensabile per la sopravvivenza perché ci permetteva di fronteggiare i pericoli con tre tipi di risposte immediate: la fuga, l’attacco o l’immobilità (quest’ultima corrisponde a fingere la morte).
Ancora oggi il ricordo del pericolo emerge con forza all’interno delle nostre relazioni e, in occasione di un conflitto, attiviamo risposte aggressive e violente oppure atteggiamenti di sottomissione e di esclusione. Anche se oggi abbiamo a disposizione milioni di soluzioni differenti per trasformare un conflitto, la paura della morte condiziona ancora le nostre azioni così come accadeva per i nostri antenati primitivi.
La comunicazione in cerchio, un dispositivo in grado di riconoscere emozioni, bisogni ed obiettivi presenti all’interno di ogni essere umano, è uno strumento che ci può aiutare modificare le nostre risposte all’interno di un conflitto e la nostra paura della morte. Il cerchio è il contenitore simbolico attraverso il quale possiamo prendere consapevolezza di ciò che si trova dietro risposte di origine antica e apprendere, in questo modo, a comunicare in maniera autentica, empatica e senza giudizio.
Come realizzare a livello operativo questa comunicazione? Quando siamo all’interno di un conflitto o stiamo vivendo una situazione problematica, creare uno spazio di presenza attraverso il silenzio ed il respiro permetterà di potenziare le connessione tra il cervello limbico e la corteccia prefrontale. Quest’ultima è la parte più evoluta del nostro cervello ed è deputata, tra le altre cose, all’osservazione e alla presa di coscienza delle nostre emozioni.
In questo modo potremo entrare in un luogo intimo di comunicazione in cerchio con noi stessi. Riconosceremo che le emozioni non sono sempre un allarme di pericolo ma possono diventare, piuttosto, nostre alleate nel riconoscimento di bisogni da colmare e di obiettivi da realizzare. Trasformeremo la paura di morte presente nelle nostre relazioni in occasione di consapevolezza.
Lo smarrimento di fronte alla morte risulta ancora più evidente se stiamo accompagnando una persona che si trova alla fine della propria vita. Familiari e caregivers spesso elaborano strategie per evitare di far comprendere a una persona che sta vivendo gli ultimi giorni della tua vita. Tuttavia, il maggior sollievo per una persona che si trova sul letto di morte non è vivere la negazione di ciò che sta accadendo, ma è sentirsi ascoltata da un altro essere umano. Il lavoro di Elizabeth Kubler Loss, psichiatra svizzera e fondatrice della psicotanatologia mostra come perfino i bambini che si trovano nella fase terminale della loro malattia hanno bisogno di qualcuno che ascolti le proprie paure e le proprie frustrazioni di fronte alla morte.
La difficoltà di rimanere in ascolto di una persona in fin di vita diventa ancora più evidente davanti alla presenza di stati alterati di coscienza (coma, stato vegetativo o stadi avanzati di demenza) definiti come situazioni in cui le persone non rispondono a stimoli esterni. In questo tipo di situazioni spesso la questione viene liquidata con espressioni del tipo: “per fortuna non è cosciente e non si rende conto di niente”.
Definire così una persona è molto delicato dal punto di vista etico. Sarebbe più onesto ed utile parlare delle nostre difficoltà, del fatto che non abbiamo strumenti o abbiamo strumenti limitati per entrare in comunicazione. Il motivo per cui diciamo che una persona si trova in uno in stato alterato di coscienza non dipende solo dalla situazione in cui si trova quella persona. Dipende piuttosto dal fatto che non riusciamo ad ammettere che siamo in difficoltà e non sappiamo cosa fare o come entrare in relazione con qualcuno che non parla e non comunica più attraverso la parola.
Peter Amman, psicologo tedesco, ha aperto una nuova prospettiva rispetto alla possibilità di entrare in connessione con persone in coma ed in altri stati alterati di coscienza attraverso l’Arte del Processo o Psicologia Orientata al Processo (Process Work o Process Oriented Psicology), disciplina creata dall’ingrese Arnold Mindell.
Questa disciplina suggerisce la possibilità di entrare in contatto seguendo segnali minimi, a partire dalla concezione di una comunicazione che coinvolga tutti i sensi. Possiamo seguire il respiro dell’altra persona fino a stabilire un contatto da pelle a pelle attraverso una carezza o un massaggio. Si tratta di accompagnare l’altra persona verso la prossima tappa. Ci sono casi di persone in stato di incoscienza ed ormai vicine al fine vita che, contattate con questa metodologia, hanno mostrato segni di coscienza, alcune volte anche attraverso l’espressione verbale.
Ognuno di noi vuole essere riconosciuto, specialmente negli ultimi istanti della propria vita. Ognuno di noi desidera avere una persona al suo fianco che le dica che va tutto bene, che ha valso la pena vivere la vita che ha vissuto e che può andarsene in pace.
Accompagnare una persona con questa forma di comunicazione significa entrare in contatto con una forma di comunicazione profonda con noi stessi. Entrare in cerchio con la morte significa entrare in cerchio con l’energia vitale presente dentro di noi e nelle persone che ci circondano.
Incarnare il futuro: la visione del mondo che vorremmo come portale dell’immortalità
Ogni vita vale la pena di essere vissuta. Ogni essere umano ha il diritto di realizzare i propri sogni. Per rafforzare la nostra capacità di affrontare la morte possiamo fare scelte che permettano di arrivare alla fine della nostra vita terrena soddisfatti di ciò che abbiamo vissuto. Bronnie Ware è una donna australiana che ha accompagnato sul letto di morte migliaia di persone ascoltando i rimpianti che ciascuna di loro ha confessato prima di esalare l’ultimo respiro. Ha raccolto queste confessioni nel libro “Vorrei averlo fatto. I cinque rimpianti più grandi”. Questo testo svela che il rimpianto principale della maggior parte delle persone prima di morire è quello di non aver vissuto la propria vita ma la vita che qualcun altro ha scelto al posto loro.
Prepararci alla morte significa prepararci alla vita che vogliamo vivere e scegliere di vivere la migliore vita possibile. In questo modo, grazie alla nostra vita, potremo contribuire a costruire il mondo in cui vogliamo vivere per lasciarlo un luogo migliore di come lo abbiamo trovato.
Spesso evitiamo di vivere la nostra vita per piacere alle persone che ci circondano, per la paura di rimanere senza soldi, oppure per la vergogna di manifestare davvero ciò che siamo. Tentiamo disperatamente di fuggire dalla solitudine, dalla povertà e dall’esclusione sociale per imboccare la strada sicura della mediocrità e di una vita senza obiettivi di valore.
Che scelte faremmo qualcuno ci dicesse che ci restano cinque anni di vita? E se avessimo ancora cinque mesi di vita, oppure cinque giorni, oppure cinque minuti? Se crediamo di avere davanti a noi un tempo infinito rimanderemo sempre a domani le scelte importanti, le scelte più difficili ma che sono quelle piene di senso.
Prepararci alla morte significa scegliere di vivere il futuro che vorremmo a partire da questo istante. Lo psicologo nord americano Bejiamin Hardy lavora sul concetto di “Io futuro” (Future self). Definendo chi vogliamo diventare nel futuro potremo proiettare nel momento presente questa immagine e lasciare che il nostro io futuro ci guidi nelle scelte quotidiane. Definire chi è il nostro io futuro ha profonde implicazioni terapeutiche, sociali e politiche. È la strada per elaborare azioni sostenibili a livello individuale e collettivo, ricordando che il pianeta si modifica ogni giorno in funzione delle nostre scelte. In aggiunta, potremo accelerare al massimo il raggiungimento dei nostri risultati ma, sopratutto, vivremo una vita e una morte senza rimpianti.
Prepararci alla morte significa prepararci alla vita. Entrare in cerchio con la morte significa entrare in cerchio con la vita. Vivere la vita, e la morte, attraversando la ricchezza delle esperienze passate, presenti e future ci permetterà di attivare una dimensione a-temporale e di goderci le nostre relazioni come doni preziosi. In ogni incontro potremo ricevere la ricchezza portata dall’altra persona e donare la nostra ricchezza. Ogni persona che incontriamo in questa vita porterà sempre con sé una parte di noi e noi porteremo nella nostra vita una parte di lei. Avremo attivato il portale dell’immortalità.
Antonio Graziano
Motivatore | Scrittore | Insegnante
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