Il coraggio di un incipit
Quando la scrittura ci insegna ad affrontare il cambiamento
Siamo esseri narranti, che si costruiscono nel tempo cercando di adattarsi a un ambiente in cambiamento.
Una fatica immane, che ci riporta continuamente a piccoli lutti dell’immagine che avevamo di noi, immagine che utilizzavamo per affrontare efficacemente (almeno credevamo) la macchina sociale.
Come scriveva Edgar Morin nel suo bellissimo libro “Insegnare a vivere. Manifesto per cambiare l’educazione” siamo saggi quando comprendiamo che ogni vita personale è un’avventura inserita in un’avventura sociale, a sua volta inserita nell’avventura dell’umanità.
Quando sentiamo parlare di storytelling o di tecniche narrative siamo ormai portati a pensare a qualcosa utilizzato per orientare la nostra immaginazione (e quindi la nostra azione).
L’uso improprio che da millenni viene fatto della costruzione di metafore ci ha fatto dimenticare la funzione biologica dell’atto poetico o letterario, oggi recuperato da discipline come la biopoetica.
Le storie non sono solo atti di potere esterni a noi, possono (e devono) essere strumenti di orientamento personale, schemi utili che ci educano al futuro, con quell’accezione di educazione che ha a che fare con l’arte maieutica.
Quando raccontiamo in maniera libera e autentica andiamo nella cantina delle nostre sensazioni per tirare fuori, ripulire e illuminare cose messe da parte, così trascurate da non sapere neanche offrirgli un nome.
Nominare è reificare, dare concretezza a qualcosa di astratto e apparentemente inconsistente, ma enormemente ingombrante.
Le parole danno confini a emozioni, pensieri e sensazioni consentendo di dargli una forma vagamente riconoscibile e osservabile con la giusta distanza e nelle giuste dimensioni.
Anche quando leggiamo, ci diamo spesso il permesso di uscire fuori da quello che Eric Berne ha definito il nostro copione di vita, per immaginare un altro modo di affrontare il contesto.
Qualunque struttura narrativa costruita in maniera stratificata (la letteratura, ma anche i film, le serie tv, i percorsi di alcuni videogiochi, fino alle vite degli influencer raccontate dalle loro stories) ci consente di esercitare l’immaginazione e di allenare, nel rassicurante dietro le quinte della fantasia, quelli che potrebbero essere comportamenti futuri, o rafforzare la consapevolezza dei comportamenti presenti.
Raccogliamo continuamente informazioni strategiche, su di noi e sugli altri, e individuiamo pattern in cui inserirle, per avere la sensazione di poterle governare.
Quando qualche evento (interno o esterno) ci sposta da quel pattern, o fa crollare la razionalizzazione che c’eravamo costruiti, ritorniamo a sentirci impotenti o eccitati di fronte a un nuovo caos, ci sentiamo (a seconda dell’esperienza, del temperamento e dell’allenamento ad affrontare il cambiamento) persi o stimolati all’azione.
Quando ciò che conoscevamo si sgretola, ci ritroviamo nello stesso momento nel nulla e nell’onda anomala delle possibilità, in cui la volontà si disperde perché non riesce ad ancorarsi in maniera chiara a un desiderio focalizzato.
Maria Zambrano, filosofa e poetessa, ci parla di nichilismo attivo: è proprio sul vuoto (che in realtà è un pieno in cui non sono stati tracciati dei confini) che si rigenera la nostra realtà, in un cambiamento che è vitale e che attinge al sacro, al mito; per sacro s’intende qualcosa di non ancora conosciuto e da esplorare (Jung collegava il sacro al concetto d’inconscio) e con mito si allude alla forza del pensiero magico e istintivo che ha la capacità di raggiungere e stimolare i più profondi centri creativi.
Il foglio bianco ci pone davanti a quel vuoto pieno di possibilità, che si attivano nella relazione tra noi (intesi come intreccio tra pensiero, emozioni, sensazioni) e ciò che ci guarda.
Dare corpo (con la penna o la tastiera) a una delle tante realtà possibili ci rende praticabile una strada tra le infinite direzioni e un’immagine tra le tante che possiamo inventare (etimologicamente da in venire che significa trovare).
Possiamo farlo attraverso l’autobiografia, l’autofiction, la poesia, la creazione di personaggi e di metafore: la scrittura diventa atto filosofico che affronta la tragedia della caduta delle certezze per cercare una svolta in commedia.
Quello che conta è aprire un varco con l’azione, un incipit che è già una decisione da cui far partire il movimento della volontà. Poggiare la penna sul foglio è difficile perché sappiamo che la prima frase darà l’intonazione a quelle successive, lascerà spazio per nuove immagini e ne porterà in cantina altre.
Nella mia attività di giornalista sperimento continuamente la difficoltà a imbrigliare la realtà complessa in schemi comprensibili e per questo spesso incompleti.
Ognuno di noi può e deve esercitarsi a un pensiero critico e a rompere, citando Daniel Favre, l’ “addiction dalle certezze“ che ci rende miopi e perfino ciechi.
Lo scetticismo è l’energia della mente, diceva Hegel, ma è chiaro che una volta fatte crollare delle illusioni di realtà sentiamo il bisogno di costruirne altre, se non altro per ridurre il nostro carico cognitivo creando nuove meccaniche di funzionamento.
Questo fino a quando non diventeremo abbastanza bravi da giocare con il caos.
Fino a quel momento ci appoggeremo agli schemi narrativi, spesso superficiali e incompleti, troppo spesso prodotti da autori che non siamo noi, ma, seppur imperativi, utili a qualche forma di convivenza.
Più impariamo a dominare le storie, più troviamo un centro di gravità narrativo in noi stessi, più riusciremo ad affrontare la complessità e soprattutto a sentirci liberi in mezzo agli altri.
Il gesto della scrittura libera attraverso la parola quel che sentiamo in potenza e che, se lasciato inespresso, può trasformarsi in ansia o in improduttivo entusiasmo.
Comunichiamo spesso attraverso le metafore perché rappresentano un luogo di incontro con gli altri e un’addomesticamento dell’irrazionale: la metafora è l’arma del poeta, diceva Zambrano.
Usiamo il corpo (le mani o la voce) per creare questo ponte con il futuro e con l’ambiente che ci circonda.
In neuroscienze si parla di simulazione incarnata (embodiment): appoggiata alla teoria dei neuroni specchio, le intuizioni di George Lakoff e Gallese sulle metafore e il loro rapporto con il linguaggio sono uno dei temi più dibattuti.
Secondo Lakoff le metafore hanno origine nel nostro sentire il corpo, quindi in parte si basa sulle esperienze passate in parte su qualche parte ancora misteriosa del nostro funzionamento.
Il lettore/spettatore (e ancor più lo scrittore) fa un corpo a corpo con la situazione narrata facendo ricorso alle proprie memorie a ai modi di relazione.
Che l’immaginazione anticipi l’azione è ormai riconosciuto, quanto il linguaggio sia precedente o successivo all’azione è invece un campo d’indagine.
Al di là delle teorie si può sperimentare la fonte personale del linguaggio, rapportandosi a una pagina bianca in condizioni di stimolo creativo.
Daniela Mangini
Giornalista | Narrative e Career Counselor | Docente di Storytelling
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