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Kintsukuroi: dal Giappone l’arte di curare e impreziosire le ferite

Come sviluppare resilienza e trasformare i traumi in opportunità


Cos’è il Kintsukuroi?

Letteralmente questa parola significa “aggiustare con l’oro”: si tratta di un’arte nata in Giappone intorno al XV secolo, durante il periodo Muromachi; secondo un’antica leggenda, un giorno lo shōgun Ashikaga Yoshimasa (1435-1490) ruppe la tazza che era solito utilizzare durante la cerimonia del tè.

Il suo disappunto fu tale che lo shōgun fece inviare i cocci in Cina perché l’oggetto fosse riparato.

Quale delusione quando l’amata tazza tornò indietro orribilmente rabberciata e non più in grado di contenere il liquido legato al rito quotidiano!

Lo shōgun, quindi, si rivolse agli artigiani della sua corte, che, nel tentativo di trovare una soluzione che si rivelasse al tempo stesso funzionale e creativa, inventarono una nuova tecnica per rimettere insieme i pezzi.

Questa era basata sull’utilizzo di lacca e polvere d’oro, che, oltre a ripristinare l’antica funzione dell’oggetto, era in grado di impreziosirlo ulteriormente, donandogli una grazia e una luminosità che prima non possedeva.

Questa nuova forma di artigianato si affermò molto velocemente, riscuotendo un gran successo: infatti, dato che gli oggetti non si rompono tutti allo stesso modo, quando vengono riparati assumono delle caratteristiche che li rendono unici, diventando delle vere e proprie opere d’arte.

L’arte del kintsukuroi affonda le sue radici nella filosofia zen, basata principalmente sulla capacità di arrestare il flusso di pensieri − potenziando quindi le abilità di adattamento alla situazione presente −, sull’accettazione della transitorietà delle cose e sull’empatia nei confronti di tutto ciò che ci circonda, che appare malinconicamente bello grazie alla sua intrinseca fragilità.


Kintsukuroi: quando il dolore diventa uno strumento per evolverci

Nel libro dello psicoterapeuta Tomàs Navarro Kintsukuroi. L’arte giapponese di curare le ferite dell’anima (Giunti) viene raccontata una storia: davanti alla supervisione di Chojiro, uno dei ceramisti più affermati di Kyoto, Sokei impara a lavorare la creta.

Sentendosi pronto per la sua prima creazione, dopo un’attenta analisi sceglie il materiale migliore per realizzare una ciotola; quindi, con estrema delicatezza, lo prende tra le mani, ne sente la temperatura, ne saggia la consistenza.

Chiude gli occhi e affonda le dita nella creta, percependone tutte le potenzialità e la profonda connessione con la propria esistenza.

Realizza un oggetto particolarmente sobrio, privo di ornamenti, semplice, come Sokei ritiene essere la sua natura più profonda.

Lo mette in forno e attende con impazienza che la creta si secchi e la sua opera giunga a piena realizzazione.

Quando però il ragazzo estrae la ciotola dal forno è talmente emozionato che le sue mani tremanti non riescono e trattenerla e la lasciano cadere al suolo facendola rompere in sei pezzi.

Davanti alle lacrime dell’allievo, il maestro Chojiro pronuncia le seguenti parole:

“La ceramica e la vita possono rompersi in mille pezzi, ma non per questo dobbiamo smettere di vivere intensamente […] Quello che dobbiamo fare non è evitare di vivere, ma imparare a ricomporci dopo le avversità. Raccogli i cocci, Sokei, è arrivato il momento di aggiustare le tue illusioni. Ciò che è rotto può essere ricomposto e, quando lo farai, non cercare di nascondere la sua apparente fragilità giacché si è trasformata ora in una forza manifesta. Caro Sokei, è arrivato il momento che ti spieghi una nuova tecnica, l’arte ancestrale del kintsukuroi”.

 

Cosa si intende per resilienza e in che modo questa può valorizzare la nostra vita

L’arte del Kintsukuroi si collega al concetto di resilienza, ovvero la capacità di superare un trauma tramite la riorganizzazione del nostro modo di essere, in maniera tale che questo acquisisca maggior valore rispetto a prima.

Mentre il concetto di resistenza rimanda più alla qualità della durezza, a una rigidità che rischia di impoverire il mondo interiore della persona ferita, quello di resilienza ha invece a che fare con la flessibilità, con una tenace morbidezza che si adatta agli eventi e cerca di sfruttarli a proprio vantaggio.

Ognuno di noi vive piccoli e grandi traumi: tutti sappiamo cosa vuol dire essere rifiutati, abbandonati, traditi; ci sarà capitato sicuramente di perdere un caro amico, un amore, di aver lottato tanto per qualcosa che poi ci si è frantumato inspiegabilmente tra le mani.

Il dolore, a volte, ci ha dato una spintarella, altre un pugno nello stomaco che ci ha buttato a terra, increduli e confusi, incapaci di rialzarci per l’ostinazione di cercare lì, sul quel pavimento freddo, delle risposte che probabilmente non avremmo mai trovato.

A volte si ha quella terribile sensazione di essere irrimediabilmente rotti, di non valere nulla, e quella bassa energia che sentiamo dentro la proiettiamo all’esterno, credendo che tutto il mondo ci remi contro.

Takumi Yamada, ne L’arte del personal kintsugi (StreetLib), partendo dal presupposto che questi “incidenti di percorso” siano propri dell’esistenza umana, sottolinea come dalle crepe della nostra anima possa nascere qualcosa di buono, una ricchezza in grado creare armonia e abbondanza in noi stessi e nell’ambiente che ci circonda.

Come dei provetti artigiani del kintsukuroi, non dovremmo vergognarci delle nostre ferite, ma curarle con amore e rispetto e, una volta cicatrizzate, esaltarle come tappe importanti del nostro percorso, una strada unica che parla di noi, del nostro modo di stare al mondo e di affrontare le avversità, una fonte di arricchimento per noi stessi e un esempio per gli altri.


Cinque modi per sviluppare resilienza e aprirci a nuove opportunità

Nel libro di Takumi Yamada si sottolinea l’importanza di alcune strategie utili per trasformare una ferita in un’occasione di crescita.

  1. Accettare che non dipende tutto da noi. Per quanto ci siamo impegnati in un progetto o in una relazione, dobbiamo essere consapevoli che la vita non è un quaderno dove scriviamo ciò che vogliamo, ma una storia orchestrata da più personaggi, in cui ognuno può far prendere agli eventi direzioni inaspettate.
  2. Rendersi conto che la sofferenza fa parte della vita umana ed è una componente evolutiva della nostra natura. Dopo un grande dolore non saremo più quelli di prima: sta a noi decidere se chiuderci in noi stessi o diventare persone più mature. L’accettazione del dolore è un mezzo per responsabilizzarci, per eliminare l’illusione infantile secondo la quale ogni problema della nostra esistenza può essere risolto.
  3. Condividere le nostre sofferenze. Spesso la solitudine, la sensazione di essere gli unici ad aver vissuto determinati eventi, va ad aggravare le sgradevoli sensazioni dovute alla perdita di qualcosa a cui eravamo legati. Comprendere che, al di là delle apparenze spesso dorate che gli altri amano mostrarci, ognuno ha il proprio bagaglio di infelicità può aiutarci a raggiungere più facilmente la pace interiore.
  4. Non identificarci completamente con cose o persone. Ognuna di loro si trova sul nostro cammino per insegnarci qualcosa, ma nulla è destinato a durare. Bisogna avere il coraggio di coltivare il non attaccamento: solo in questo modo ci accorgeremo dell’abbondanza in cui siamo immersi e faremo spazio a quello che la vita è in grado di offrirci.
  5. Affrontare le avversità come fossero delle sfide per migliorarci. Prendendoci cura di noi stessi, magari riflettendo su quello che non ha funzionato in una determinata situazione, otterremo una maggiore percezione del nostro valore, con la diretta conseguenza che quelle crepe che pensavamo ci avrebbero imbruttito per sempre si copriranno d’oro e mostreranno a noi stessi e agli altri la nostra meravigliosa unicità.

Giulia Adamo Autrice presso La Mente Pensante
Giulia Adamo
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