La violenza non è mai giustificabile
Educare al rispetto di se stessi e degli altri
Image by sydney sims on Unsplash.com
Quanto si è detto di violenza sulle donne in questi anni, ancora di più in queste settimane, quante frasi, occasioni di sensibilizzazione e anche di scontro.
Degli innumerevoli articoli sull’argomento, uno mi ha colpito più di tutti e ha quale fonte l’Istat:
Molte donne non considerano la violenza subita un reato, solo il 35,4% delle donne che hanno subìto violenza fisica o sessuale dal partner ritiene di essere stata vittima di un reato, il 44% sostiene che si è trattato di qualcosa di sbagliato ma non di un reato, mentre il 19,4% considera la violenza solo qualcosa che è accaduto.
Se solo il 35,4% delle donne considera la violenza subita dal partner come reato, la restante parte ritiene che non lo sia!
Si tende a giustificare una violenza se proviene dall’uomo che abbiamo “scelto” come partner. Nulla di più sbagliato. Commettere un errore di valutazione, in ambito sentimentale, è normale, quasi inevitabile e non conosco nessuno che non sia inciampato in questo errore.
Ma la violenza è un atto che qualifica chi lo compie, non chi lo subisce, è un reato e non semplicemente “qualcosa che è accaduto”.
I tanti e improvvisati opinionisti del web collegano le cause della violenza al patriarcato, alla crisi dei valori, ai testi delle canzoni che incitano alla violenza o identificano l’amore con il possesso, all’incapacità educativa della famiglia o della scuola, alla sottomissione della donna o al suo essere troppo provocante.
Ma ricercare una causa significa provare a dare una giustificazione alla violenza e la violenza invece non va giustificata mai.
Ciò vale per ogni forma di violenza.
Per esempio, uno schiaffo dato da un genitore a un figlio non lo educa, ma instilla in lui l’idea che la violenza sia accettabile e magari anche giusta.
La violenza inaudita di una bomba su vite innocenti non può trovare una giustificazione, le guerre sono sempre sbagliate anche quando definite “sante”, perché il fine non giustifica mai i mezzi.
Una donna che accetta di vivere con un marito violento per il bene dei figli non sta realmente facendo il loro bene, al contrario li sta abituando alla violenza e all’idea di un amore che non è amore, ma è un laccio da stringere intorno all’anima, a volte persino intorno al collo.
Mi rendo conto di quanto le mie considerazioni siano poco risolutive.
Mentre le scrivo mi risuonano nelle orecchie i commenti di chi, educato secondo i metodi educativi del passato, pensa che “uno schiaffo non abbia mai fatto male a nessuno” e che è meglio educare con una sculacciata che non educare affatto.
Mi immagino voci disperate provenienti da lontano che sostengono che bisogna combattere per difendere i propri ideali, che è facile parlare di pace quando non si è mai stati vittime di una grave ingiustizia, quando non si è stati privati di una casa, dei propri affetti, della libertà di muoversi, di amare, di essere.
E ancora immagino tutte quelle donne che hanno provato a ribellarsi alla violenza e sono rimaste sole e indifese, perché chi doveva proteggerle dalla violenza non è stato in grado di farlo.
Quindi lo ammetto: le mie sono le considerazioni semplicistiche di una donna che, per fortuna e senza alcun merito, è sempre stata libera e che spesso dà per scontato il valore immenso di quella libertà.
È una libertà che, tuttavia, tende a restringersi quando evito di mettere una gonna corta per paura di attirare l’attenzione di malintenzionati o chiedo a una coppia di conoscenti di accompagnarmi di notte sino alla mia auto “perché non si sa mai”.
A proposito di libertà, mi chiedo quanta ne riuscirò a concedere ai miei figli quando cresceranno.
Io, che ho messo i paraspigoli su tutti i mobili, mi devo rassegnare all’evidenza che non esistono paraspigoli per il cuore. Sarò in grado di proteggerli da un mondo che non è all’altezza della loro purezza e bontà d’animo? E se un giorno fossero loro, arrabbiati e delusi, a diventare violenti?
Guardo i miei figli e prego che non accada loro mai nulla di male. Un giorno affronterò l’argomento, ma adesso voglio proteggerli da tutte queste terribili notizie di vite spezzate.
La mia piccolina dorme con un’espressione beata, il mio ometto è incollato alla tv a tifare per la prima volta per un tennista italiano insieme al padre e al nonno. È uno spettacolo rincuorante vedere insieme tre generazioni unite dalla passione per lo sport.
Mi accorgo che mio figlio fino a qualche giorno fa non sapeva nulla di tennis. Lui che da grande vuole fare il calciatore ha preso in mano la sua prima racchetta a scuola, in occasione della giornata dello sport. In questi giorni ha respirato l’entusiasmo del nonno e del padre e lo ha fatto diventare il proprio.
Scuola e famiglia hanno trasmesso un messaggio e lui lo ha assorbito.
E allora capisco che quello contro la violenza delle donne non è un discorso da fare quando sarà grande. Ho già iniziato a parlargli d’amore tutte le volte che ho risposto ai suoi capricci con la comprensione anziché con uno schiaffo, quando ho accolto a casa ogni membro della famiglia con un bacio e un sorriso, nei casi in cui io e suo padre abbiamo trovato una soluzione a un problema o ci siamo abbracciati di fronte a una difficoltà che non eravamo pronti ad affrontare.
Purtroppo l’ho fatto anche ogniqualvolta ho alzato la voce esasperata, quando ho utilizzato le parole e i silenzi per far male, quando ho accettato che qualcun altro lo facesse a me, tutte le volte che ho provato a giustificare i miei comportamenti sbagliati, anziché condannarli e allontanarli per sempre dalla nostra famiglia.
Sono fiduciosa che anche gli insegnanti trasmetteranno il loro amorevole messaggio, non solo attraverso minuti di silenzio e la celebrazione di giornate e lavoretti dedicati (dalle scarpette rosse ai calzini spaiati, dalla giornata della gentilezza a quella dei diritti dei bambini), ma soprattutto attraverso l’esempio concreto, evitando di sparlare di colleghi e colleghe, mostrandosi rispettosi e accoglienti di fronte alle diversità e alle difficoltà dei bambini.
È questo che chiedo a me stessa e agli adulti che, come genitori, parenti o insegnanti, svolgono il difficilissimo ruolo di educatori: creare un ambiente intriso di amore e rispetto, in cui qualunque forma di violenza sia intollerabile.
Ai miei figli chiedo di respirare tutto questo amore e rispetto e farlo diventare una necessità, quando saranno più grandi e vivranno le loro prime relazioni sentimentali.
Non posso impedire loro di soffrire, ma posso insegnar loro, a tempo debito, che l’amore non tarpa le ali ma insegna a volare.
E se le mie parole non bastassero, mi piacerebbe che un giorno facessero proprie le esortazioni di Kahlil Gibran:
Amatevi reciprocamente, ma non fate dell’amore un laccio:
Lasciate piuttosto che vi sia un mare in moto tra le sponde delle vostre anime.
Riempia ognuno la coppa dell’altro, ma non bevete da una coppa sola.
Scambiatevi il pane, ma non mangiate dalla stessa pagnotta.
Cantate e danzate e siate gioiosi insieme, ma che ognuno di voi resti solo, così come le corde di un liuto son sole benché vibrino della stessa musica.Datevi il cuore, ma l’uno non sia in custodia dell’altro.
Poiché solo la mano della Vita può contenere entrambi i cuori.
E restate uniti, benché non troppo vicini insieme,
poiché le colonne del tempio restano tra loro distanti,
e la quercia e il cipresso non crescono l’una all’ombra dell’altro.”(tratto da “Il matrimonio” di Kahlil Gibran)
Eliana Romeo
Scrittrice | Giurista | Mediatrice familiare
Bio | Articoli | Video Intervista Scrittori Pensanti
……………………………………………………………..