Le domande giuste da fare a se stessi
Sarà capitato anche a voi…di riposarvi da voi stessi e guardare il soffitto
Mettiamo subito i puntini sulle “i”, da buon Capricorno ascendente Capricorno non posso proprio farne a meno: questo articolo non ti darà nessuna risposta a nessuna domanda e men che meno ti proporrà soluzioni e visioni nuove sul tema del tuo benessere; questo articolo ti aiuterà invece a fare delle domande, le domande giuste.
Una delle sfide più grandi che ho affrontato durante la pandemia e che mi ha lasciato una lezione così importante da farne tesoro non solo nel mio lavoro, ma soprattutto nel mio quotidiano di uomo, è stata sbattere il muso contro l’illusorio pensiero di bastare a me stesso. Dopodiché, semplicemente, muovere un passo avanti. “Semplicemente” perché i pensieri sono solo pensieri, e così come sono arrivati possono anche andarsene… dissolversi come nuvole al vento.
Ed a tal proposito ti voglio raccontare una storia.
C’era una volta…
Ho sempre pensato che per superare questo momento così terribile delle nostre esistenze, sospese fra pandemie e guerre, bastasse in un certo qual modo applicare a me stesso strumenti, tecniche, meditazioni ed esercizi che consiglio e che pratico quotidianamente insieme ai miei clienti… e che soprattutto… funzionano.
Ecco… è stato un errore, un grosso errore.
E non perché i miei clienti non abbiamo tratto beneficio dal mio lavoro insieme a loro, o non ne siano rimasti soddisfatti, ma alla fine ero io che… insomma, c’era qualcosa che “non mi tornava”.
Ho smesso di arrovellarmi chiedendomi che cosa fosse che “non mi tornava”, che inceppava quel meccanismo perfetto di ascolto, ricerca, accoglienza, domanda, risposta, azione, ascolto, ricerca, … che è la cifra delle mie giornate, quando tutto d’un tratto, una di queste sere dopo aver letto del potere del silenzio [1], ho inaspettatamente rallentato il pensiero e allontanato il suo rumore ritrovandomi a guardare il soffitto, in silenzio… con la sola compagnia del ritmo sonnolento del mio respiro.
Insomma quando ho deciso di allontanarmi per un attimo dal mio “ruolo” e nel sottile brusio di un silenzio inaspettato mi sono riposato da me stesso tutto è stato chiaro.
Perché quando torni a casa, la sera, è importante non solo lasciare fuori dalla porta “le cose” del giorno, ma riporre per bene anche il tuo “abito da lavoro” nel suo armadio, lontano da sguardi indiscreti… anche lui deve riposare, prendere aria e liberarsi dalla polvere del giorno.
Come si inceppa l’ingranaggio perfetto di un coach?
Quello che inceppava il “meccanismo perfetto” non era in effetti che un piccolo, piccolissimo granello di polvere, un piccolo pensiero che avevo su di me, sul mio essere un “HR Professional”, un “Coach”: un pensiero che nutrivo costantemente – “se funziona con i miei clienti, funzionerà anche con me” – tutto qui; l’idea che avere strumenti e competenze di aiuto per i miei clienti fosse sufficiente per essere in un qualche modo al riparo dalla loro potenziale vulnerabilità.
Ma ad un certo punto la mia vocina interiore mi ha tirato le orecchie, mentre in silenzio guardavo il soffitto: “Max, tu sei tu, non sei i tuoi clienti: ognuno di loro è unico e nessuno è uguale ad un altro e men che meno uguale a sé stesso giorno dopo giorno dopo giorno. Davvero pensi di essere così bravo da replicare su di te modelli di azione e di pensiero che sono un dono per altri? Ti stai riprendendo le caramelle che hai appena regalato al bimbo che vive sul tuo pianerottolo? Non sei l’unto del Signore”.
In effetti siamo costantemente presi dall’essere continuamente attivamente in azione nel tentativo di dimostrare al mondo che “noi ci siamo”, così attivamente veloci che spesso l’attività stessa è considerata più importante della persona che vive l’esperienza, sviluppando una spontanea tendenza a separare ciò che una cosa (una situazione) è da ciò che crediamo che sia. Ma quella persona siamo noi, sono io, sei tu.
E’ quello che rimproveriamo ai nostri clienti… Perché non farlo anche noi?
C’era una volta un uomo in corsa, in corsa per ascoltare gli altri e non se stesso.
Alla scoperta della vulnerabilità: l’arma segreta per “tornare in pista”
Io non sono solo un coach, io sono un uomo, un compagno di vita, un figlio, un amico… ma prima di tutto sono un uomo e quindi per mia stessa natura vulnerabile, fine stop, riga, chiuso. Attenzione, le parole sono importanti, non ho scritto fragile… ho scritto vulnerabile.
Permettersi di essere vulnerabili non vuoi dire non essere più in grado di fare il nostro lavoro di coach, anzi… in una certa qual misura ci aiuta a farlo con ancora più empatia e calore umano.
Permettersi di percepirsi vulnerabili è una meravigliosa occasione per dare al nostro ruolo una chance in più di essere un meraviglioso abito che possiamo indossare con orgoglio e piacere, o lasciare un attimo nell’armadio quando necessario, e non una stanca divisa cucita addosso che rischia di piacere solo a noi… rischiando di sortire l’effetto di questo sketch famosissimo.
Ed infine, permettersi di percepirsi vulnerabili ci offre la possibilità di trattare noi stessi davvero come trattiamo usualmente i nostri clienti: con amore e rispetto, senza giudizio e con empatia. Figo no?
Le domande giuste: la consapevolezza della fallacia
Avere maggior cura e rispetto del proprio ruolo parte proprio da qui, dal riconoscere che essere vulnerabili non significa essere fragili per esempio, e che cercare con forza e caparbia di mantenere a fuoco il nostro autoritratto a volte ha lo stesso effetto di quei filtri di Instagram che ti rendono irriconoscibile a tutti tranne che illusoriamente a te stesso (e giuro… non ho in mente nessuno… ok?).
Allora forse anziché cercare risposte “fuori da noi” ad un nostro autoritratto a volte un po’ sfocato non è meglio cercare di capire quali sono le domande giuste per uscire dall’idea, inconsistente, di essere al di sopra di certe situazioni solo perché possiamo aiutare gli altri a fare altrettanto.
Non siamo gli unti del signore, siamo uomini e donne fallaci, meccanismi di risonanza imperfetti e meravigliosamente delicati.
Le domande giuste da fare a noi stessi nel silenzio della sera [2] nascono proprio da questa consapevolezza: che un ruolo non è nient’altro che una etichetta, un “nome” che porta con sé responsabilità ma soprattutto aspettative.
E come l’abito che abbiamo scelto per uscire di casa… a volte lo sentiamo “perfetto” per la nostra giornata ed alcune volte decisamente “meno” e passiamo tutto il tempo, o quasi, ad aggiustarcelo davanti ad uno specchio. E se anziché abito fosse divisa?
Ecco, non sovrastimare o sopravvalutare le aspettative che noi stessi investiamo nel nostro ruolo è un buonissimo primo passo verso un “guardare il soffitto” pieno di spunti per noi, il nostro lavoro e la nostra quotidianità, mentre il nostro “costume di scena” riposa tranquillo nella cabina armadio.
Essere Amleto credetemi, è facile, davvero… perché per tre ore della tua vita sai esattamente cosa ti succederà e soprattutto cosa proverai durante questo cammino e cosa proveranno gli altri… e ti prepari per mesi e mesi a quelle tre ore!
E’ questa la magia del teatro ed il dono meraviglioso che noi attori possiamo regalarti.
Ma essere Massimo o Ilaria o Antonio o Milena non è invece così facile… non puoi prepararti mesi e mesi prima per “esserlo”… lo sei e basta… in balia di emozioni, sentimenti e “cose” che non puoi sempre controllare ed incorniciare in modo perfetto nell’immagine che hai di te stesso.
E forse non sarebbe nemmeno giusto farlo non credi?
Le domande giuste: quelle da chiedere al soffitto
Cosa chiedere quindi al soffitto per dare “un senso al nostro ruolo”?
Poche cose… prova… prendi carta e penna ed appuntati questa check list e questa sera, mentre sei comodo sul divano, con la televisione spenta ed il cellulare lontano millemila miglia chiediti:
- Come sto? Perché sto “così”?
- Cosa ho imparato oggi?
- Mi sono voluto davvero bene oggi?
- Ho fatto qualcosa solo per me oggi?
- Cosa mi ha protetto dall’essere triste?
- Cosa mi ha regalato gioia oggi?
Qualunque siano le risposte che ti darai, adesso ti svelo un segreto, saranno le “risposte giuste”!!!
Saranno le risposte che nutrono il tuo bimbo interiore, il tuo motore emotivo, ed è giusto ed umano anche “stare di merda”, anche se sei un coach, un Hr Professional, un influencer, uno psicologo, un attore, una mamma, un papà, un fratello, un amico, un amante…
Ascoltami… guarda il soffitto, in silenzio, e goditi quello che sei adesso, perché domani sarai già qualcos’altro… migliore.
[1] Questo bellissimo articolo della mia amica Ilaria, parla del silenzio come uno dei più potenti strumenti di comunicazione… e scoprire che è ancora più potente per dialogare con il nostro “bambino interiore”… beh… wow! Leggetelo! E fatemi sapere cosa ne pensate!
[2] Non dimenticate il soffitto! Guardare il soffitto è parte integrante del rituale!
Massimo Chionetti
HR Trainer | Consultant | Attore
Bio | Articoli | Video Intervista
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