La decostruzione del messaggio sociale nell’agire educativo [Parte Prima]
Uomo ideale, matrici sociali, metamessaggi pubblicitari
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Qualsiasi ricercatore, scienziato, filosofo, giudice, psicologo, medico e non ultimo, qualsiasi insegnante, è immerso in un universo simbolico da cui non può prescindere nella formulazione delle sue idee, dei suoi valori e di conseguenza delle sue azioni (Boudon 1984). Ma quanti di noi sono consapevoli di come siamo tremendamente impigliati in una serie di matrici sociali che di fatto agiscono sulla nostra ed altrui pelle? (Berger & Luckmann 1966). In questo articolo, che per esigenze editoriali sarà diviso in quattro parti, si approfondirà come i valori dominanti delle società Occidentali vadano ad influenzare l’agire pedagogico a qualsiasi livello ed in particolare quello dell’educazione. L’insegnante, come del resto tutti noi, è parte integrante del sistema simbolico che influenza il “suo” pensare ed agire. Per questa categoria professionale diventa quindi fondamentale conoscere e riconoscere quali siano le aspettative latenti e non manifeste del sistema socio-economico di appartenenza rispetto ai vari campi della società, visto che poi queste finfluenze verranno trasmesse in maniera più o meno consapevole ai propri educandi. Il problema è che nella maggior parte dei casi, quando ci si conforma ad un modello sociale non si aderisce ad esso perché si crede sia quello migliore, ma perché si è convinti che sia quello oggettivamente giusto Questa adesione non è stata posta quindi in maniera dialettica e solo una visione critica della realtà sociale, che parta innanzi tutto dal riconoscimento dei propri pregiudizi di base, è in grado di indebolire le proprie convinzioni limitanti ed aprire delle finestre di libertà (Papadopoulos 2014). Solo allora si potrà essere un po’ più liberi di agire secondo i “propri” valori.
Il potere dei mass media
Per capire come queste matrici sociali vengono trasmesse è bene mettere sotto i riflettori qual è l’idea di “uomo” che la propria società di appartenenza propina in diverse modalità ai suoi cittadini. Tutti i modelli socioculturali sono una convenzione, non una realtà assoluta, ma come abbiamo visto, troppo spesso si perde di vista questo fattore di relatività per cui tali modelli vengono “imposti” alle nuove generazioni in maniera sottile ed inconscia. All’interno di un’ampia società vi sono messaggi valoriali impliciti che si differenziano a seconda della generazione, del contesto socioculturale e di quello geografico per cui sembra un’impresa ardua capire quale sia questa idea di uomo che viene proposta da una società data visto che essa non è un soggetto fisico ma solamente un’idea astratta che non denota alcun “soggetto” particolare. La risposta in realtà è molto più semplice di quanto possa sembrare: basta tenere d’occhio i mass media con tutti i messaggi che in maniera più o meno esplicita vengono propagandati, compreso tutto ciò che naviga sul web, gli spot pubblicitari ed i cosidetti “influencer” su cui andrebbe fatto un discorso a parte.
Il messaggio sociale implicito
La nostra società attuale si basa sull’individualismo basato sul concetto di “Homo homini lupus” famosa frase del filosofo inglese Thomas Hobbes, e sul detto latino “Mors tua, vita mea“. Secondo queste visioni la natura umana è fondamentalmente egoistica e di conseguenza le azioni che ne derivano sono finalizzate al mantenimento dell’istinto di sopravvivenza che prevedono, se necessario, anche la sopraffazione e la violenza di qualsiasi genere. Il capitalismo incarna perfettamente queste concezioni e il cosiddetto “libero mercato” si fonda principalmente sulla competizione che presuppone una guerra commerciale permanente per acquisire fette di mercato sempre più grosse a discapito degli altri competitors. Altro concetto chiave del capitalismo è quello della crescita permanente, ovvero, un’azienda che in un determinato anno ha guadagnato milioni o miliardi euro o dollari, secondo questa concezione non può permettersi di rallentare o fermare la propria crescita anche se è già ben cospicua. Questa concezione della crescita permanente viene riproposto continuamente con una sorta di “terrorismo mediatico” quando almeno due volte al dì le reti nazionali televisive ci “aggiornano” sull’andamento del P.I.L. che se si abbassa di appena qualche millesimo fa subito pensare ad una imminente recessione economica.
Tutti questi concetti, oltre ad influenzarci nella vita quotidiana e nella nostra emotività, in qualche modo vengono riproposti nel mondo della scuola sotto forma di competizione, performances, abilità sempre più performanti: bisogna fare sempre di più, sempre meglio; bisogna essere i primi, estremamente competitivi, modalità che vengono rinforzate dagli stessi genitori quando iniziano a elencare le varie “prodezze” o “genialità” del prorio scarrafone, per riprendere un detto napoletano.
“No logo” ed i metamessaggi pubblicitari
Alla fine del secondo paragrafo si è accennato al ruolo che ha la pubblicità nel formare determinati valori o disvalori nell’opinione pubblica; vale quindi la pena dedicare a questo argomento un piccolo spazio.
Dagli anni ‘80 in poi il marketing pubblicitario ha cambiato radicalmente sia le proprie strategie pubblicitarie sia il target a cui si era rivolto fino ad allora. Infatti agli inizi la pubblicità si rivolgeva primariamente ad un pubblico adulto e primariamente femminile ma appunto dagli anni ‘80 del secolo scorso in poi (gli anni del cosiddetto “edonismo reganiano”) la pubblicità si è rivolta sempre più massicciamente verso un pubblico di giovani adolescenti ed in alcuni casi anche di giovanissimi. Infatti, in alcuni settori, è proprio questa fascia di età che fa generare per alcune multinazionali enormi fatturati ed è anche la fascia di età che più “sa” seguire e legittimare le alcune mode del momento. I bambini stessi, quando arrivano alle scuole elementari sono già stati abbondantemente bombardati da una serie di messaggi pubblicitari che in qualche modo hanno già influenzato la loro percezione della realtà.
Questo argomento è stato trattato approfonditamente da Naomi Klein nel suo famoso saggio “No logo” di cui consiglio vivamente la lettura anche se ora è un po’ datato (Klein 2000).
In base a quanto scritto fino ad ora, senza operare alcun giudizio di valore, si può dedurre che la nostra sia una società basata sull’apparenza, sull’effimero e sull’edonismo oltre che sulla produzione, sul lavoro e sulla proprietà privata. Tralasciando per ora i primi tre termini e soffermandosi sugli ultimi tre si può concludere che questa società si “aspetta” che un uomo voglia fare delle cose ed impegnarsi per accumulare ricchezza (anche per assicurarsi una base materiale sicura). Di conseguenza si presuppone che un simile uomo abbia degli obiettivi soggettivi da raggiungere. A sua volta questa aspettativa presuppone che un simile uomo abbia raggiunto un certo grado di sicurezza, autostima e fiducia nella proprie capacità ed in caso contrario si entra nel girone dei perdenti, dei non trendy, dei falliti.
Anche da queste aspettative sociali si può evincere come sia implicito in esse il concetto di performance. Gli stessi spots pubblicitari ripropongono queste visione e possiamo distinguere due target pubblicitari diversi: uno che si rivolge alla famiglia “felice” che ha realizzato i propri sogni e l’altro che invece è diretto al singolo individuo che si focalizza primariamente sull’ideale originario nord-americano dell’uomo “che si fa da solo“, che non deve chiedere, che rincorre e soddisfa sempre i suoi obiettivi. L’aspetto soggettivo ed individualista è predominante ed ha come conseguenza che il concetto del “noi”, inteso come comunità, venga sempre più relegato sullo sfondo.
Gli occhi del sistema
L’idea di fondo che scaturisce da questi passaggi appena espressi è che l’uomo debba produrre beni materiali privati ed occuparsi del suo benessere individuale e, se non ottiene un qualche risultato tangibile in termini economici, immobiliari, o di prestigio personale, verrà considerato dal sistema come un fallito, un perdente. Ma da chi è rappresentato questo fantomatico ed inafferrabibile “sistema”? In realtà è una presenza molto vicina perché è rappresentato dalla famiglia di origine, dalla nuova famiglia di appartenenza, dagli amici, dai colleghi di lavoro e soprattutto dai giudizi e pregiudizi su se stesso che l’individuo si carica e si trascina nel tempo (Papadopoulos 2014). Sostanzialmente il “sistema” è costituito da persone in carne ed ossa che hanno introiettato e trasmesso diversi tipi di messaggi, quindi non qualcosa di anonimo che difficilmente provocherebbe ansia, ma persone reali che oggettivamente possono concretamente minare più o meno la propria autostima.
Questa “eredità” del sistema è potentissima e naturalmente lo ritroviamo per forza di cose nei primi due “centri” essenziali di formazione di un individuo: in primis la famiglia (anche allargata) e secondariamente tutte le strutture educative a partire dalla prima infanzia.
Conclusioni
In questa prima parte dell’articolo abbiamo affrontato le matrici sociali dell’agire umano, l’influenza che i vari media hanno su di esso nella creazione di un ideale di uomo modello da emulare. Dopo questa lunga “introduzione” nelle altre parti di questo articolo inizieremo ad affrontare più approfonditamente come tutti questi aspetti vadano ad inserirsi nel contesto formativo ed educativo più importante dopo la famiglia: la scuola.
Bibliografia
1. Berger P. & Luckmann T., (1966), La realtà com costruzione sociale, Il Mulino, Bologna 1969.
2. Boudon R.(1984), Il posto del disordine, Il Mulino, Bologna 1985.
3. Klein N., (2000), No logo, Baldini & Castaldi, Milano 2001.
4. Papadopoulos I., La teoria generale dei pregiudizi di base, Armando, Roma 2014.
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Psicologo Clinico | Sociologo
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