Propaganda e strategie negative
La decostruzione del messaggio sociale nell’agire educativo [Parte Seconda]
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Nella prima parte di questo articolo si è cercato di risalire al concetto di uomo ideale che la nostra società contemporanea propaganda. In questo articolo andremo ad affrontare come questi modelli vengono trasmessi, in modo più o meno consapevole, agli educandi dei contesti educativi. Questi processi di trasmissione si rivelano estremamente delicati visto che, dopo la famiglia, assumono un peso fondamentale nel processo di formazione degli esseri umani.
Per la sua capillarità la scuola è un punto chiave di propaganda, basti ricordare con quale “scientificità” veniva attuata nel campo educativo durante i vari regimi del secolo scorso, come il fascismo, il nazismo, il maoismo, lo stalinismo.
Il mondo scolastico italiano è alquanto bistrattato, dimenticato, senza risorse finanziare e strutturali, la qual cosa potrebbe far credere che non si ritenga più che le istituzioni educative costituiscano un punto chiave di propaganda ideologica. Tuttaltro, è proprio per la sua importanza cruciale nella formazione del pensiero critico e dell’autocoscienza che l’educazione pubblica italiana è stata volutamente dimenticata ed affossata. Si tratta di una diversa strategia di propaganda che potremmo definire come una strategia negativa nel senso che anziché imporre ed immettere i pensieri del “potere” si impoveriscono o addirittura si distruggono le basi per la formazione e lo sviluppo di un pensiero critico. Quindi si toglie anziché aggiungere e ciò è evidente anche da un punto di vista finanziario se si guarda al calo progressivo delle risorse finanziare messe a disposizione per il comparto scuola in ogni Legge Finanziaria.
Naturalmente nel panorama scolastico nazionale esistono diverse “isole educative felici” ma in genere dipendono dalla lungimiranza e dall’impegno di singole insegnanti e/o direttori didattici e non da un disegno politico strutturato.
In questo articolo espongo anche una visione alternativa di alcuni concetti teorici legati alle strutture della prima infanzia che potrebbe non essere condivisa da molti operatori e teorici del campo pedagogico. Va comunque sottolineato che ciò che scrivo nasce da un’esperienza più che decennale all’interno proprio di queste strutture educative.
Il mito della “Socializzazione”
Dato che i messaggi sociali di una società influenzano pesantemente anche il mondo della scuola, rappresentato dal corpo docente, dai direttori didattici, dagli amministratori e dai politici che ne stabiliscono le linee guida, in maniera quasi inconscia verranno selezionate determinate teorie pedagogiche corenti con il proprio modo di interpetare la realtà sociale. Per esempio negli asili nido e nelle scuole dell’infanzia si pone molto l’accento sui processi di “socializzazione” che, al di là di una loro funzione positiva e gratificante sia per i bambini che per i loro genitori, possono assumere anche un altro tipo di valenza. Infatti secondo Lurçat il significato implicito della socializzazione consiste nel far penetrare, attraverso un’opera di modellamento ideologico più o meno inconsapevole, tutta una serie di norme e valori in vigore in una specifica società (Lurçat 1976).
Abbiamo anche visto come l’individualismo, la separazione, l’autoreferenzialità, la competizione e di conseguenza anche il conflitto, siano concetti impliciti su cui si basa la nostra società contemporanea anche se apparentemente essa aborrisce tali comportamenti. Se l’individualismo rappresenta uno dei “valori” basilari della nostra società, ne consegue che fin dalla prima infanzia i concetti di indipendenza ed autonomia debbano essere fortemente sostenuti anche all’interno dell’apparato educativo. Infatti questi sono proprio dei concetti teorici su cui si basano le strutture dell’infanzia a partire dagli asili nido. In Italia gli asili nido sono stati istituiti nel 1975 come trasformazione degli Istituti O.M.N.I. ed i presupposti ideologici sul loro sviluppo si basavano, oltre che sul concetto di “socializzazione”, anche sull’emancipazione della donna. Infatti quelli erano gli anni in cui il femminismo era alla ribalta e le donne reclamavano il diritto di una vita propria ed indipendente non relegata unicamente a quella di “angelo del focolare”.
Il mito dell’indipendenza
L’indipendenza e l’autonomia sono dei concetti importanti e necessari per lo sviluppo di un bambino per affrancarsi dalla fase simbiotica che normalmente si ha con la propria madre nei primissimi anni di vita (Mahler 1968, Segal 1973) ma quell’autonomia sostenuta a tutti i costi nell’ideologia degli asili nido degli anni ’70 si potrebbe configurare anche come una mistificazione perché, quanto questa “necessità” di autonomia era primariamente funzionale ai bisogni dei piccoli ospiti e quanto invece a quelli delle loro madri lavoratrici? Se da una parte gli asili nido hanno contribuito allo sviluppo dell’emancipazione della donna, dall’altra hanno obbligato i piccoli esseri ad una indipendenza prematura e forzata, perché cosa c’é di positivo per un bambino nell’essere lasciato di prima mattina in una struttura educativa ed uscirne dopo circa dieci ore proprio nel periodo in cui avrebbe più necessità di una vicinanza genitoriale più assidua?
Mi chiedo anche se il sostegno di questa indipendenza precoce a tutti i costi non abbia in qualche modo contribuito a demonizzare ogni parvenza di “dipendenza” in qualsiasi campo delle relazioni umane, come quando si bolla una relazione di coppia, (o un singolo individuo) come disfunzionale non appena si presenti un accenno ad una sorta di “dipendenza”.
Questo mito dell’indipendenza si configura quindi come un derivato della concezione individualista della nostra società, concetti che si rinforzano vicendevolmente. Questo rafforzamento reciproco fra indipendenza e individualismo ha come effetto secondario l’ampliamento del proprio Ego che singe a a porre in secondo piano la valenza del “Noi”, del gruppo allargato, del bene comune, argomento che riprenderemo nel prossimo articolo
In Italia però, da qualche decennio, questa indipendenza forzata si è trasformata in una dipendenza “economica-strutturale” ed il periodo di adolescenza ora si prolunga fino a periodi non ben definiti.
Il mito della performance
La formazione classica delle insegnanti si è basata per anni sull’intervento, sull’offrire informazione, sul dare ed attendersi risposte (Ritscher e Staccioli 2005). Più una sezione o classe produceva lavori sotto forma di disegni, cartelloni, manufatti, lavoretti vari, eccetera, più le insegnanti venivano considerate “competenti”, “professionali”, quindi “brave” e degne di stima soprattutto dai genitori stessi. Ne conseguiva che più si facevano cose (produzione), più ci si sentiva apprezzate (rinforzo) e nel giusto (etica dominante).
Il problema qui non sussiste tanto nel fatto che le insegnanti e gli insegnanti strutturino implicitamente la loro azione educativa sul concetto di produzione, che rappresenta appunto un altro aspetto dell’idea di uomo propagandata dalla società, quanto piuttosto quello di agire in tal senso senza averlo deciso! Un conto è scegliere coscientemente ed accettare “volontariamente” un determinato modello socioculturale, un altro è quello di agirlo e e riprodurlo perché è così, o perché degli agenti esterni, quali possono essere i quadri politici, gli amministratori, i genitori degli alunni e le colleghe stesse, si aspettano tali comportamenti, o peggio ancora perché non ci si è mai posti il problema di una visione critica della società. Ma i bambini non sono ossessionati dall’idea del produrre perché invece sono affascinati dallo scoprire, dal conoscere e dal fare un’esperienza in se stessa.
Il portfolio ed i giochi con l’acqua
“Realizzare prodotti per il “portfolio” dei bambini può sembrare la ragion d’essere della scuola; in realtà, “la produzione” dovrebbe rappresentare una minima parte del vivere a scuola. Un prodotto finito sembra dimostrare che si sia lavorato seriamente, mentre un gioco che arricchisce profondamente e stabilmente l’esperienza di un bambino può non lasciare tracce manifeste. A questo proposito i pedagogisti Ritscher e Staccioli riportano le “ricerche esperenziali” di Antonio e di Silvia:
[Antonio con solo pennello ed acqua dipinge sopra un tavolo]; “Il fatto che la pittura sparisca subito non sembra disturbare Antonio. Evidentemente non è il prodotto tangibile che lo affascina, ma l’azione stessa del pitturare. (Ritscher e Staccioli p. 14).
[Silvia si lava le mani con il sapone e nell’acqua dentro il lavandino si forma un ammasso di sciuma. Poi Silvia] “Slivia chiude il rubinetto, la schiuma non trabocca, anzi comincia a scendere. Allora Silvia ripete tutto il procedimento. […] Silvia si asciuga le mani e torna dai compagni […] Sembra che Silvia abbia scoperto per caso come si può formare la schiuma. Poi intenzionalmente, ha ripetuto l’esperienza, come potrebbe farlo uno scienziato, per verificare il risultato ottenuto. É un esempio […] di un apprendimento senza “insegnamento” (Ritscher e Staccioli 2005, p. 78.).45
Un portfolio pieno non garantisce una mente piena, ovvero non assicura dei comportamenti saggi o intelligenti e da un punto di vista teorico è ormai assodato come l’educazione non debba configurarsi come un mero accumulo di saperi, concetto presente anche in tutte le linee guida nazionali e non, ma la pratica, proprio perché è influenzata sia dall’universo simbolico, che dai propri pregiudizi personali (Papadopoulos 2014), rischia di distaccarsi dalla teoria, a volte, anche in maniera evidente. Non è facile mantenere una profonda coerenza quando costantemente e pervasivamente le sollecitazioni ambientali ed i messaggi che ci avvolgono sono esattamente il contrario di ciò che vorremmo fare.
Corri, corri… verso dove?
Come sappiamo il termine “educare” deriva dal latino ex ducere, ovvero portare maieuticamente fuori. Invece la tendenza è stata sempre quella di mettere dentro e ciò diventa più evidente soprattutto dopo la scuola primaria. Se invece partiamo dal concetto che “sviluppare” implichi che già esista qualcosa, si dedicherebbe molto più tempo all’osservazione delle bambine e dei bambini, che,in molti casi, viene ancora percepita come una sottrazione al tempo per portare avanti i vari programmi ministeriali (Ritscher e Staccioli 2005). Così tutto si trasforma in una corsa frenetica… Corsa verso dove e per chi? È una corsa per i bambini o per i funzionari ministeriali?
Spesso i programmi della scuola non coincidono con quelli dei bambini; finché si è piccoli è socialmente accettato e promosso l’ascolto dei loro bisogni, dopo, lo diventa meno fino a diventare un “intralcio” per il proseguio dei cosiddetti programmi scolastici.
Anche quest’ultimo aspetto, che si configura come una corsa contro il tempo, rappresenta l’ennesimo condizionamento sociale che è in stretta relazione con l’aspettativa di una buona performance, ma solo di tipo cognitivo.
Il concetto di tempo, connesso a quello di velocità, è un altro aspetto importante che è andato ad influenzare la nostra vita psichica più profonda nella quarta parte di questo articolo approfondiremo proprio questo concetto ma prima di approfondirlo nella prossima parte, ovvero la terza, affronteremo, come il concetto di “individualismo” abbia fortemente deformato la percezione della nostra “realtà” più interna.
Bibliografia
Berger P. & Luckmann T., (1966), La realtà com costruzione sociale, Il Mulino, Bologna 1969.
Dinelli, S, Dore, N., Pensato R., Asili nido oggi, Emme Edizioni, Milano 1980.
Lurçat L., (1976), Processo alla scuola materna, Nuova Italia Scientifica, Firenze 1980.
Mahler M. (1968), Le psicosi infantili, Boringhieri, Torino 1980.
Papadopoulos I., (a) https://lamentepensante.com/messaggio-sociale-nellagire-educativo-parte-prima/
Papadopoulos I., (b), La teoria generale dei pregiudizi di base, Armando Editore, Roma 2014.
Segal H. (1973),Introduzione all’opera di Melanie Klein, Martinelli, Firenze 1975.
Ritscher P., Staccioli G., Vivere a scuola, Carocci Editore, Roma, 2005. 45
Dott. Ivo Papadopoulos
Psicologo Clinico | Sociologo
Bio | Articoli | Intervista Scrittori Pensanti | AIIP Novembre 2023
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