Resilienza
Origine del termine, Etimologia, e Applicazioni
È da tempo che sentiamo ed usiamo il termine “resilienza” a cui normalmente attribuiamo un’accezione positiva, infatti consideriamo ed apprezziamo le persone che vengono definite resilienti come degne di lode per il fatto di essere ritenute tali: ma c’è veramente da rallegrarsi nell’usare e nel sentirsi affibbiare questo termine?
Di contro molte persone di fronte a crisi di varia natura non riescono a manifestare la “resilienza” ma si “adagiano” e sprofondano nella sofferenza. Per questa ragione, oltre al danno, questi soggetti devono anche sentirsi socialmente in colpa perché non sono stati degni di essere definiti “resilienti“.
Questo termine attualmente non viene usato solo per singoli individui ma ora si parla anche di “comunità resilienti“, intendendo con ciò la capacità di una intera comunità di gestire situazioni di emergenza particolarmente difficili come la siccità, le carestie, i conflitti armati, e così via.
Certo, alcune emergenze non sono certo di facile e breve risoluzione, ma il rischio è che accentuando il focus su questo “elegante” concetto la reale necessità e volontà politica di risoluzione venga mediaticamente spostata in secondo piano.
Inoltre è sempre più evidente come le emergenze di varia natura che dovevano essere limitate in un breve arco temporale, sono diventate invece il nuovo modus vivendi di intere comunità che, per forza di cose, si adattano e diventano appunto resilienti a quella emergenza specifica che ormai è diventata parte integrante della “normale” quotidianità.
Le tasse troppo elevate ed il mondo del lavoro sono per esempio due temi cari agli italiani.
Fin da quando ho memoria storica ogni governo che si è susseguito ha promesso l’abbassamento delle tasse ed il mioglioramento delle condizioni lavorative oltre che economiche.
Di fatto le tasse sono ormai inostenibili, così come i progressi per la dignità nel mondo del lavoro sono totalmente annientati e la precarietà ha sostituito la sicurezza lavorativa.
E cosa fanno gli italiani? Borbottano, ma poi si adeguano ed ognuno trova le proprie strategie di sopravvivenza fiscale ed occupazionale, cioè diventano “resilienti” rispetto queste criticità.
Emblematica è la strategia di sopravvivenza (ovvero la resilienza) del precariato insegnante soprattutto nel meridione dove molte insegannti precarie si alzano la mattina all’alba per recarsi nelle stazioni di grosse città per aspettare lì la chiamata della supplenza giornaliera, perché se attendessero la chiamata nella propria comoda casa non potrebbero arrivare a scuola alle 8,00 e dovrebbero rinunciare all’incarico.
La Dottoressa Hone dell’Università di Canterbury della Nuova Zelanda sostiene che “la resilienza viene dalla propria natura, dall’educazione e dalla cultura […] ma non tiene conto di enormi fattori esterni come le disuguaglianze sociali, il razzismo strutturale o i servizi di supporto sottofinanziati“. (M Italia)
Date queste premesse in questo articolo cercherò di spiegare la motivazione sui miei dubbi sull’uso indiscriminato e fuorviante del termine “resilienza“.
Resilienza: origini del termine
Quando compaiono dei neologismi, quindi parole nuove mai usate prima, è utile sapere “chi” ha coniato il nuovo termine linguistico perché può offrire diverse informazioni.
Infatti nessuno di noi é neutro nella sua lettura, interpretazione e descrizione degli accadimenti e conoscere la posizione ideologica di chi conia un neologismo, illumina la parola di una determinata luce (Boudon 1984).
Un’altra informazione importante consiste nel conoscere in quale settore nasce il neologismo perché spesso un termine nato in un determinato ambito disciplinare viene poi traslato in altri contesti andando, a volte, a perdere o deformare il suo significato originale.
Secondo l’Oxford Languages “In psicologia, resilienza è la capacità di un individuo di reagire di fronte a traumi e difficoltà“.
Nell’accezione originaria è però un termine tecnico che indica “la capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi“.
Il termine “resilienza” è stato usato per la prima volta nelle scienze sociali dallo psicologo americano Jack Block negli anni ’50 del secolo scorso nell’ambito della psicologia infantile.
Oggigiorno invece lo si usa unicamente per gli adulti.
Block usò questo termine durante una ricerca a lungo termine per indicare la risposta autorisolutiva e psicologicamente riadattiva di un gruppo di bambini dove tutti avevano subito traumi importanti.
Quindi con questo termine Block probabilmente si riferiva ad uno sviluppo evolutivo favorevole nonostante questi giovani soggetti avessero subito forme importanti di stress (Wanistendael 1996).
Questo concetto comportava un aspetto dinamico, trasformativo nel tempo mentre ora si applica a qualsiasi persona che superi (o accetti) qualsiasi evento negativo, piccolo o grande, che può essere di natura psicologica, sociale, economica, secondo un’accezione statica, non trasformativa e passiva.
Il termine latino “resiliens” inizia a presentarsi nella letteratura scientifica redatta in latino fin dal 1600, per indicare sia il rimbalzare di un oggetto, sia alcune caratteristiche interne legate all’elasticità dei corpi fisici, come quella di assorbire l’energia di un urto contraendosi (accademiadellacrusca.it).
Il termine vene usato primariamente nei paesi anglo-sassoni e di lingua francese, mentre nella lingua italiana iniziò ad essere usato costantemente solo agli inizi del XX secolo ad ad eccezione di alcuni esempi, tra cui uno letterario di Primo Levi del 1982, (www.treccani.it).
In seguito, esasperando questo significato di adattamento, il vocabolo è diventato nella lingua taliana una parola pass-partout, usata in qualsiasi campo perché rappresenta la “promessa” di poter sopravvivere e cadere senza particolari conseguenze in qualsiasi situazione (Ibidem).
Etimologia
L’origine del termine “resilienza” è legata al verbo latino “resilire” composto dal prefisso “re” seguito dal verbo “silire” che vuol dire saltare”.
Quindi il significato generale era “tornare di colpo“, “rimbalzare indietro” e per estensione anche “ritirarsi“, “contrarsi” (Treccani).
Tutti questi significati quindi se applicati alla psicologia non paiono assumere una connotazione positiva perché richiamano la paura la chiusura, l’irrigidimento.
Già questo non dovrebbe far rallegrare chi viene definito resiliente.
Ogni parola ha una valenza semiotica e semantica ed il suo significato profondo, non appare positivo, non rimanda una sensazione evolutiva e di benesssere ma appunto, di stasi e passività.
Come abbiamo visto il termine fu introdotto nella psicologia infantile secondo un’accezione evolutiva e trasformativa, mentre ora ha assunto una connotazione statica, non trasformativa e di accettazione passiva di determinati eventi negativi.
Ciò è coerente con il contesto originario in cui fu introdotto tale termine nelle scienze umanistiche, infatti i bambini hanno limitate possibilità di influenzare il proprio ambiente relazionale soprattutto quando è minaccioso e violento.
Ma la psicologia degli adulti, a cui viene applicato oggi questo termine, non è equiparabile alla psicologia infantile… o questo è proprio ciò che si vuole? (Papadopoulos 2014).
Per le motivazioni sopra esposte l’uso indiscriminato ed improprio del termine “resiliente” ha come effetto voluto/casuale di descrivere gli attori sociali come passivi rispetto tutti gli accadimenti sociali, politici, economici che ricadono ed interessano le loro vite.
Ma nell’immaginario collettivo un individuo resiliente è degno di amirazione, quando in realtà non ha voluto o potuto ribellarsi all’ennesimo sopruso di una società sempre più disumana.
Potere e linguaggio
Tutti gli apparati, nella loro esecuzione del potere, si basano innanzitutto su simboli e solo in seconda battuta sulla propaganda che ha come obiettivo la ricerca del consenso (Papadopoulos 2022).
I simboli posono essere degli elementi grafici ma anche elementi linguistici.
Thomas Kunn, nella sua disamina sulle rivoluzioni scientifiche metteva in evidenza che ogni nuovo paradigma scientifico tende ad usare neologismi per descrivere gli stessi fenomeni descritti dai paradigmi scientifici precedenti (Kuhn 1962).
Quindi il linguaggio non è un semplice codice per comunicare, ma è un vero e proprio generatore di realtà.
Nelle discipline alternative alla medicina ed alla psicologia ufficali l’uso di un linguaggio positivo o la pronuncia di determinate parole sta assumendo un valore sempre più importante.
Quindi usare determinati termini piuttosto di altri non è un fatto neutro ma ha una sua valenza psicologica oltre che energetica. In questo senso la gematria della Kabbalah ha molto da insegnare (Lahy 2006).
Ogni propaganda é veicolata dal inguaggio che viene costantemente “adattato” ai propri scopi.
Per fare un esempio di questo tipo basti pensare alla terminologia usata per denotare la prima guerra del Golfo del 1990.
In quel frangente l’amministrazione Bush la definì come una “guerra di pace“… e nessun giornalista, del mainstream notò questa incongruenza lessicale.
Ovviamente quella fu una trovata propagandistica dell’amministrazione Bush per far digerire al popolo americano l’entrata nell’ennesima guerra oltre a cercare di offrire un’immagine di “salvatore” della “democrazia” e della “pace” all’opinione pubblica mondiale: come si può notare anche in questo caso torna quindi il bisogno del potere di acquisire il “consenso” dei propri sottoposti.
L’uso del termine
Come affermavo all’inzio di questo articolo sapere chi ha coniato il neologismo offre alcune informazioni, ma ancor di più vengono offerte da chi inizia ad usarlo anche deformandolo ed astraendolo dal suo contesto originario.
In questo caso il termine “resiliente” è stato riesumato dopo 50 anni dalle istituzioni di apparato ed i mass media.
Ora dovrebbe essere chiaro a tutti che i mass media non fanno più vera informazione ma fungono solo da megafono per i gruppi di potere di turno come appunto affermava anche Jean-Luc Godar scomparso recentissimamente.
Per questo motivo l’uso massivo del termine “resiliente” risulta alquanto dubbio. Infine, come già affermato in precedenza, il termine viene ora utilizzato per denotare la risposta delle persone ad emergenze costanti e perenni che non terminano mai.
E allora il rischio è che la resilienza si trasformi in una passività costante e duratura… forse è proprio questo l’obiettivo?
La resilienza… Europea
A mio avviso non è un caso che questo termine sia entrato profondamente anche nella politica degli ultimi due anni, infatti il famoso PNRR che viene nominato in tutti i TG, è una sigla che sta per Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.
“In verità è stata l’Unione Europea ad aver dettato la strada e aver definito il significato di resilienza che l’Italia sembra interpretare in questo senso. Il PNRR infatti risponde all’iniziativa della Commissione Europea, intitolata Next Generation EU (NGEU), di finanziare interventi all’interno di un disegno di rilancio e di transizione verso un’economia più sostenibile e meglio preparata a gestire crisi climatiche, economiche e sanitarie. È la Commissione Europea a stabilire i criteri con cui valutare la validità dei piani proposti da ogni Paese, secondo un regolamento intitolato Recovery and Resilience Facility Plan. La resilienza delle riforme proposte in Italia è quindi di fatto la Resilience pensata dall’Europa.” (www.treccani.it)
“La resilienza” è considerata oggi non solo come una predisposizione ed una proprietà di cui gli uomini sono dotati, ma come una competenza che è “auspicabile” acquisire e rafforzare.
Lo dimostra la quantità di libri, articoli e saggi che sono stati prodotti sul tema con finalità psico-pedagogiche (www.treccani.it).
Ma chi è così interessato affinchè si sviluppi questa capacità? Ognuno tragga le proprie conclusioni.
Bibliografia
Boudon Rl., (1984), Il posto del disordine, Il Mulino, Bologna 1985.
Kuhn T., (1962), La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 2000.
Lahy G., (2006), L’alfabeto ebraico, Venexia Edizioni, Roma 2008.
Papadopoulos I., La teoria generale dei pregiudizi di base, Armando Editore, Roma 2014.
Bibliografia Online
Mashable Italia: Resilienza: cosa significa davvero e perché ne parliamo in modo sbagliato
Oxford Languages
www.accademiadellacrusca.it
Il mantenimento della “stupidità” – Seconda Parte: Il mantenimento dei pregiudizi e la fabbrica del consenso – Papadopolos I.,2022
Wanistendael 1996, in www.igorvitale.org
Dott. Ivo Papadopoulos
Psicologo Clinico | Sociologo
Bio | Articoli | Intervista Scrittori Pensanti | AIIP Novembre 2023
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