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Stranger Things: analisi di un trauma

Attenzione questo articolo contiene uno SPOILER!


È da poco uscita la quarta stagione di Stranger Things e molti di noi attendono con ansia le prossime, e ultime, due puntate che usciranno questo luglio.

E nella trepidante attesa che attanaglia tutti noi appassionati, mi piacerebbe riflettere con voi su alcuni passaggi davvero belli e importanti.

Come abbiamo potuto capire tutti, questa stagione si basa molto sul trauma.

Con Undici che non ricorda le parti più rilevanti e orribili della sua vita, attuando la difesa della rimozione, una difesa arcaica messa in atto quando non si può e non si vuole ricordare qualcosa che altrimenti creerebbe una sofferenza insopportabile per l’individuo.

E poi vi è la dissociazione, una difesa anche questa primitiva che fa sì che i ricordi traumatici siano vissuti da un’altra parte del Sé scissa e che non arriva alla coscienza (intesa come conscio), più simile a quello che accade alle vittime di Vecna (un uomo, potremmo dire un demone, con poteri soprannaturali che vive nella realtà del “Sottosopra”) quando fa ripercorrere a queste i propri traumi, durante la trance in cui entrano prima di essere uccise.

Ma sulla base di cosa sceglie le persone traumatizzate? Cos’è che dà potere a Vecna? Cosa dà potere alla parte oscura dentro di noi, quella del sottosuolo, dell’inconscio?


La scelta Di Vecna: Il trauma infantile

Quello su cui vorrei soffermarmi è uno degli episodi più salienti di questa quarta stagione di Stranger Things, uno dei momenti più belli e importanti, ossia quello in cui Max viene catturata da Vecna per essere uccisa.

Durante questa scena c’è una frase che il demone dice alla ragazzina: “loro non possono aiutarti, Max. C’è una ragione per cui ti nascondi da loro“.

Ciò che hanno in comune i ragazzi che vengono uccisi da Vecna sono dei traumi e delle situazioni nel presente o nel passato, di cui non parlano: la depressione della prima vittima dovuta ad una madre molto esigente e svalutante; un trauma non elaborato del passato di cui si sente colpevole la seconda vittima; un dolore mai espresso verbalmente della perdita di un fratello nel caso di Max; un padre violento come nel caso dell’ultima vittima (il ragazzo che gioca a basket).

Il demone si diverte su questi vissuti facendo ripercorrere alle sue vittime, poco prima di ucciderle, i traumi che vivono o hanno vissuto, in questo modo le indebolisce facendoli credere di meritare la morte per quello che subiscono.

Gioca con i loro sensi di colpa, la loro vergogna, con le loro paure più profonde facendogliele rivivere, esattamente come accade nei deliri psicotici dove si hanno allucinazioni che ri-traumatizzano il soggetto.

In termini psicologici, quello che fa Vecna è giocare sull’identificazione con l’aggressore (Ferenczi, 1933), ossia cerca di far identificare le sue vittime con l’aggressore, dandogli la colpa per ciò che vivono.

Questo processo avviene quando il bambino o soggetto fortemente traumatizzato prova a dare una spiegazione al dolore che gli si infligge, fino ad arrivare a pensare di meritare quanto accade, percependo cattivo sia il proprio Sé che il mondo esterno.

Parlando con la terminologia di Melanie Klein (psicoanalista del ‘900), questo permette al bambino di non perdere l’oggetto buono esterno, ossia il genitore di cui ha bisogno per sopravvivere, e si identifica con l’oggetto cattivo, interiorizzando tutte le parole cattive che, in caso di psicosi, possono diventare voci intrusive e disturbanti che ripetono frasi crudeli o le creano ex novo come se vivessero in una punizione perenne, come se non fossero degni di vivere, diviene lampante così la pulsione di morte che si scontra con la pulsione di vita.

Una guerra intrapsichica che viene trasportata anche all’esterno tramite allucinazioni uditive o visive, come ad esempio: “ucciditi, tanto non vali niente” “fatti del male” o addirittura possono ordinargli di fare del male agli altri.

Sono voci persecutorie per cui il soggetto può arrivare a pensare che la sua stessa famiglia lo voglia uccidere.


Il trauma intergenerazionale

Ma perché è così importante questo passaggio che ho riportato?

Perché vi è una cosa che tramanda il trauma e lo lascia fluttuante senza elaborazione: il silenzio.

La frase che dice Vecna a Max “c’è un motivo se ti nascondi da loro“, il motivo è la vergogna per la propria vulnerabilità e senso di colpa che in un lutto – inteso come perdita – si sperimentano sempre.

Se qualcosa che riteniamo indicibile, spaventosa, quasi impensabile, non la condividiamo con l’esterno, rimarrà nella nostra realtà interna e si nasconderà nella nostra profondità – inconscio o subconscio, a seconda della gravità e in quale tempo della nostra crescita sia stato vissuto l’evento traumatico – (il nostro “sottosopra”) e prima o poi si impossesserà di noi, esattamente come un demone.

I fantasmi del nostro passato sono sempre presenti e più sono spaventosi più non vorremo ricordarli, attuando una difesa arcaica, o in casi meno gravi l’evitamento di quei ricordi.

Questo fenomeno è stato studiato tramite i sopravvissuti alla Shoah.

Secondo alcuni autori vi era una “cospirazione del silenzio” per cui i membri della famiglia, terapeuti e altri interlocutori non potevano credere a ciò che sentivano, portando i sopravvissuti a un’ulteriore traumatizzazione, rabbia e vergogna che non gli permetteva di parlarne anche con le persone più intime (Danieli, 1998a).

Secondo Bohleber (2007) questo avveniva poiché l’orrore, la crudeltà e la paura evocavano difese come ripudio ed evitamento.

Sospesi tra la vita e la morte, i sopravvissuti erano costretti a dimenticare o a ricordare per portare testimonianza nel mondo di quanto avevano visto e vissuto.

Molti di questi sono rimasti insieme fino a sposarsi, questo perché condividevano un dolore inspiegabile agli altri e che nessuno, a parte chi lo aveva vissuto, avrebbe potuto capire, in questo modo non c’era bisogno nemmeno di parlarne, portando quindi avanti un trauma indicibile, impensabile:

Lui sapeva chi ero io, lui era l’unica persona che lo sapeva, e io sapevo chi era lui. – Helen K. (sposata con suo marito da quando aveva sedici anni, una volta uscita dal campo di concentramento)

Altre famiglie torturate insieme non potevano più reggere la vista l’uno dell’altro, perché vedersi ricordava quei momenti.

Successivamente si notò come i figli nati da queste coppie, avevano maggiori probabilità di sviluppare un disturbo da stress post traumatico (PTSD), alcuni pazienti di Rakoff, Siegal ed Epstein (1966) tentarono il suicidio prima dei vent’anni.

Molti genitori mantenevano un totale silenzio riguardo le loro esperienze, nella speranza di risparmiare ai figli il dolore del loro passato, ma in questo modo le fantasie del bambino possono diventare ancora più distruttive (Siegal, 1971, 1973; Trossman, 1968).

I figli spesso sentivano un gran bisogno di dare un senso alla loro vita, come se avessero il compito di vivere una vita che non era stata concessa ai loro genitori e quindi di superare il lutto di questi ultimi, un modo per riparare quegli oggetti che sono andati distrutti (Kernberg, 1989).

In altre parole, i figli possono ricevere il fardello delle identificazioni inconsce dei genitori che portano con sé la percezione di un mondo esterno minaccioso e mortifero (Mucci, 2014).


Ricordi felici: La Resilienza

Come fa quindi a salvarsi, Max? Cos’è che le impedisce di lasciarsi andare alla morte?

Si salva grazie ai ricordi felici, un fenomeno che in psicologia viene chiamato resilienza.

La resilienza è la capacità di un individuo di trovare delle strategie funzionali in momenti critici della propria vita, per sopravvivere.

Primo Levi la chiama “riserva di forza” (1986) sconosciuta anche a chi la possiede finché non dovrà farne uso in circostanze estreme, questa è la qualità misteriosa della resilienza.

Anche questo è stato studiato sui sopravvissuti alla Shoah, i quali in circostanze estreme sono riusciti a trovare un motivo per non farsi prendere dalla morte, come racconta uno di loro:

Dopo che mi hanno pugnalato e lasciato lì pensando fossi morto, all’improvviso ho avuto una potentissima immagine di mio padre. Mi sono reso conto che non potevo ancora morire perché gli avrei causato troppo dolore.

Dovevo riconciliarmi con lui e recuperare il rapporto. Una volta deciso a vivere, mi è successa una cosa straordinaria.

Effettivamente ho visualizzato il nodo attorno ai polsi, anche se le mie mani erano legate dietro la schiena.  Mi sono slegato e sono strisciato verso l’ingresso. I vicini mi hanno trovato giusto in tempo. Pochi minuti in più e sarebbe stato troppo tardi. Sentii che mi era stata data la possibilità di vivere una seconda volta. (Riportato da Hermann, 1992)

Ciò che salva Max è proprio questo, grazie alla sua canzone preferita mentre si trova nello stato di trance (dissociativo) si riaggancia alla realtà esterna, oggettiva e si sgancia da quello del suo “sottosopra” che rappresenta l’inconscio.

Sente le voci dei suoi amici che la chiamano e riesce a ritrovare nei suoi ricordi ciò che la rende felice, quello per cui vale la pena vivere.

Sembrerebbe quindi che fare qualcosa per qualcuno che per noi è importante o esserne semplicemente in contatto, sia un elemento fondamentale alla sopravvivenza e abbia reso i sopravvissuti pieni di risorse e di resilienza.

Per cui rimanere insieme e avere amici e familiari vicino a sé quando ci si trova in momenti di difficoltà estremi o no, ci può dare stabilità e un senso interno di sicurezza e protezione (Mucci, 2014; Wiesel, 1994), e quando si trova quella motivazione interna non resta che scappare da tutto quello che ci distrugge, correre verso le persone che davvero vogliono il nostro bene.

Per cui “Running up that hill“, raggiungete la collina e mettetevi in salvo, riemergete dall’abisso di ciò che vi fa male e guardate dall’alto tutto quello che avete lasciato nell’upsidedown e siate fieri, perché il primo demone che avete sconfitto è la parte oscura di voi stessi che cerca di trascinarvi verso ciò che vi fa soffrire.

Quello che vorrei dirvi con questo articolo è che quando vi sentiti persi, quando provate sofferenza e dolore, sebbene sappia quanto sia facile rinchiudersi in sé stessi e non cercare aiuto, quando qualcosa si rompe dentro di voi, quando pensate di essere soli, abbiate il coraggio e la fiducia di mettervi a fianco le persone a voi care e importanti, perché quelle persone saranno sempre lì pronte a porgervi la mano per rialzarvi.

Abbiate il coraggio di scappare via dai vostri demoni e di raggiungere ciò che realmente vi può rendere felici, come Max.


Bibliografia

Mucci C. (2014). Trauma e perdono. Una prospettiva psicoanalitica intergenerazionale. Raffaello Cortina Editore.


Dott.ssa Lucia Marzano Autrice presso La Mente Pensante Magazine
Dott.ssa Lucia Marzano
Psicologa Clinica
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