Volontariato: quali motivazioni?
Un’analisi descrittiva psicologica
Una descrizione generale dell’azione motivazionale
Ogni azione, è risaputo, è sorretta da un interesse (che costituisce il motivo) e tende al raggiungimento di una meta (che costituisce l’obiettivo).
Per agire, nella maggioranza dei casi, e cioè in tutti in cui vi sia un coinvolgimento cosciente della volontà, occorre avere decisionalità spinta da una forza dinamica: questa forza è costituita dalla motivazione.
Da un punto teoretico, generalmente le motivazioni si prestano a più livelli interpretativi di classificazione.
Una classificazione (Galimberti, 1982) è la seguente, un po’ datata ma sempre valida:
- interpretazione individualistica: la motivazione è una tendenza determinante della personalità;
- interpretazione biologica: la motivazione è identificabile con il bisogno fisiologico;
- interpretazione istintiva: la motivazione è il prodotto dell’istinto umano;
- interpretazione pulsionale: la motivazione è sovrapponibile alla pulsione, nell’accezione psicoanalitica;
- interpretazione antropologica: la motivazione è il risultato della matrice culturale;
- interpretazione sociologica: la motivazione è la risposta al bisogno di sintonia con il proprio gruppo di appartenenza;
- interpretazione umanistico-esistenziale: la motivazione è separata dal bisogno ed è inscrivibile al registro dei valori e degli ideali.
Altrettanto importante ed utile ai fini della comprensione è il concetto di omeostasi nel suo sintetico significato di capacità di mantenimento delle condizioni interne nonostante il cambiamento di quelle esterne, a sua volta suddiviso in processo omeostatico e processo antiomeostatico.
Il primo comprende motivi fisiologici: freddo, fame, sete, sonno, dolore ed anche quelli specie specifici tipo sessualità, cura della prole, difesa, eccetera.
Ciò che invece attiene al processo antiomeostatico riguarda non più la riduzione equilibratrice di un bisogno originario, bensì la necessità di stimolazione di un organismo verso l’esplorazione, ossia motivi di natura personale o sociale.
Nel caso del volontariato, come si vedrà, la motivazione è di tipo secondario, cioè non legata ai bisogni fisiologici.
Ad ogni modo, qualunque sia la motivazione che muove l’essere umano, egli funziona per obiettivi e tra le varie entità definitorie, qui interessa maggiormente quella psicologica che lo considera “soggetto epistemico” nel senso che si occupa della conoscenza e della costruzione di essa, e “soggetto in situazione” nel senso che si mette in situazione di esperienza (Piaget e lnhelder, 1979).
Si deduce che il comportamento motivato è volto verso il mondo concreto delle cose (acquisizione e tesaurizzazione), verso il mondo sociale (affiliazione, potere, successo) e verso quello ideale (elaborazione e realizzazione di progetti).
Nelle fattispecie di cui sopra, la motivazione riguarda anche il lavoro, inteso come un atto di concretizzazione, appunto, del comportamento motivato, sia che esso sia retribuito oppure che sia volontaristico; infatti, tra le varie definizioni chiarificatrici, basti la seguente di motivazione al lavoro:
“la motivazione è un insieme di forze, deboli o potenti, che provocano, dirigono e sostengono il comportamento lavorativo degli adulti” (Pinder, 1984).
Si parla di forze, non di ricompense.
E’ evidente, quindi, che oltre alla remunerazione debba esserci un altro tipo di guadagno, visto che notoriamente i volontari non sono pagati.
Dall’azione motivazionale alla significazione psicologica del volontariato
Dunque, a partire dalla visione generale della motivazione, e dei suoi correlati, occorre arrivare alla significazione del Volontariato.
Tra l’altro, non è poi cosi facile delineare status sociali e ruoli individuali ad esso associati, quindi è plausibile ricercare e rintracciare le specifiche motivazioni al volontariato nelle caratteristiche di personalità.
Ma questo non riguarda più tanto la motivazione al volontariato quanto, invece, la domanda di chi sia il Volontario, altro discorso dal presente lavoro, anche se trasversale.
Pertanto, procedendo per grado verso tale significazione, si può pensare che il volontariato sia un particolare fenomeno espressivo del sentire e dell’agire umano di particolare importanza ed interesse, per più motivi che vanno dalla portata economica a quella storico-politica, da una connotazione sociologica ad un’altra psicologica.
Per una prima interpretazione di tipo psicologico di tale fenomeno, occorre essenzialmente riferirsi anche agli aspetti legati ai riflessi comportamentali della persona agente.
Ogni Agente si muove nel contesto sia dell’ideale e sia del concreto: dunque sono coinvolti aspetti di etica e di prassi.
Etica e prassi nell’azione del volontariato?
Certo, e non potrebbe essere altrimenti, come ogni altra azione umana tesa all’ottenimento di un “bene”, in questo caso “anche” bene sociale:
- etica intesa come “morale”, ossia intesa come separazione tra soggetto che agisce e bene da realizzare (dunque: “non lo faccio per me”) rifacendosi a Hegel (filosofo tedesco, 1770-1871);
- prassi intesa come atto ispirato al pragmatismo, cioè atto improntato all’ottenimento del risultato (dunque: ”devo trovare il modo per ottenere il bene prefissato”).
Come dire: un volo di rondine da una visione e realizzazione idiografica del bene (ossia basata sull’esperienza soggettiva) ad una visione nomotetica (ossia basata su spiegazioni universali del comportamento), visione figlia di una socialità che toglie disuguaglianza e individualismo e mette dignità umana propiziata dall’altruismo (v. l’idea di Bene e di Valore nell’Illuminismo del ‘700).
Parola magica: altruismo. Sempre e comunque?
E’ pertinente rivolgere una riflessione a proposito dell’etica e della prassi verso il registro dell’intrapsichico, e quindi verso un bias (= distorsione) non intenzionale, dunque una distorsione della consapevolezza dei motivi delle proprie azioni: non sempre si coglie esattamente il perché di una determinata azione, a volte si crede che il motivo sia quello attribuito e, invece, è tutt’altro.
Da un punto di vista psicoanalitico freudiano, i motivi inconsci sono dominanti anche nella teoria della motivazione umana.
E così, un buon impegno nel mondo del volontariato può significare coscientemente sensibilità, accoglienza verso l’Altro, generosità, disponibilità e altro ancora, ma può anche significare un’inconscia motivazione a soddisfare esigenze personali – nel senso di bisogno che genera pulsione – di gratificazioni non ottenibili altrimenti, attraverso altre azioni.
Ad esempio, può esserci un desiderio di primeggiare, di essere considerati importanti, capaci e indispensabili per il benessere o addirittura per la sopravvivenza di qualcuno.
Desiderio possibile, perché rientra nelle tendenze di realizzazione dell’essere umano, ma anche desiderio da tenere inconscio, represso, perché evidenziatore di aspetto di egotismo, oltre che di egoismo, (egotismo ha una connotazione narcisistica maggiore di quanto non l’abbia l’egoismo) e di edonismo (cioè piacere di sé, ultimo fine a se stesso) che – a volte – si pensa debba essere secondario rispetto a quello altruistico.
Per non parlare di una più che legittima (legittima perché “riparatrice”) sublimazione di desideri che individualmente e socialmente sono ritenuti da reprimere e quindi da sostituire con azioni accettabili in-vece.
Difficilmente si potrebbe accettare che mediante un determinato comportamento si sposti un’insoddisfazione per trasformarla in qualcosa di piacevole, con tutti i suoi correlati e significati; insoddisfazione che sarebbe portatrice di frustrazione, fluttuante dal mancato raggiungimento di un obiettivo o inappagato desiderio fino a inibiti piaceri sessuali e non.
Allora, cos’è l’atto volontaristico?
L’atto di volontariato è fine a se stesso oppure è sostituto evocativo di qualcosa d’altro?
E’ un atto gratuito di generosità, oppure è una ricompensa attuale simile al premio consolatorio remoto avuto in conseguenza di circostanze spiacevoli?
E’ un dono per gli altri, oppure è dono per se stessi?
Difficile dare risposte assolute; si rischierebbe o superficialità o la generalizzazione, entrambe sempre da evitare soprattutto in questioni cosi delicate come quelle dell’animo umano.
Ad ogni modo, interpretazioni di questo tenore non sono fuori luogo perché occorre tener conto dell’universale tendenza a soddisfare comunque le proprie pulsioni, riconosciute o non riconosciute e, soprattutto, accettate o non accettate.
Un altro aspetto da non sottovalutare è questo: quanta traslazione c’è in un impegno solidaristico? Sicuramente non poco.
A tutti sarà capitato di desiderare che anche gli altri provassero la stessa felicità o lo stesso benessere ricercato per sé.
Ecco, motivazioni al volontariato potrebbero proprio situarsi in questo apparente, o simulato, desiderio di condivisione e di ampliamento della fruibilità.
Apparente perché a livello concettuale è qualcosa di più.
E’ sì presente la voglia di condivisione dell’oggetto, ma è sotteso anche un paradossale contrario che annulla una realtà desiderata: la traslazione su altri di quanto impossibile, per più motivi, ottenere per sé.
E si può andare da sentimenti di solidarietà verso gli altri alla comprensione e compagnia, dall’aiuto materiale per la realizzazione di qualcosa fino all’abnegazione o quasi.
E ci si potrebbe autorizzare molto in là in interpretazioni – che non devono né sorprendere né essere considerate “offensive” per i buoni sentimenti – che portano a leggere l’amore verso l’Altro come il risvolto possibile del suo contrario, l’odio.
E se così fosse, non si tratterebbe certo di misantropia camuffata, ma di una ottima soluzione che la psiche trova per ridurre i conflitti che sono sempre limitanti e dolorosi e, di conseguenza, da risolvere il più possibile.
Comunque sia, l’esito è decisamente nobile e dà pieno incoraggiamento a questo inconscio meccanismo.
Se occorre dare una spiegazione ancora più esauriente del perché si è Volontari, tutto fin qui può andar bene a condizione di un’esposizione allargata che ricerchi ulteriori paradigmi diversi.
Se nominare non significa spiegare, questo è altrettanto vero per la parzialità dialettica e dialogica, che risulterebbe ermeneuticamente riduttiva.
Modelli interpretativi sono sicuramente quelli appena esposti dell’azione etica e delle motivazioni inconsce che provvedono, queste ultime, a gratificazioni e “guadagni secondari” indiscutibili, la cui ricerca da parte del soggetto volontario è molto presente.
Ma l’argomento richiede e merita ulteriore confronto.
Pur ugualmente in un’ottica psicologica, si potrebbe spostare un poco il pensiero su un livello filosofico e interrogarsi sulle dottrine di Libero arbitrio e di Determinismo.
L’idea del libero arbitrio è decisamente affascinante: Platone e Aristotele ci hanno tramandato l’idea che è la mente a controllare il comportamento e che, quindi, l’uomo è libero di scegliere il comportamento che più gli aggrada.
Dall’altro canto, gli evoluzionisti e i comportamentisti puri, altamente rappresentati da Darwin da Skinner*, danno popolarità alla concezione deterministica che ci vuole manipolati dall’ambiente, il quale determina il nostro comportamento.
*(Burrush Skinner, Psicologo comportamentista statunitense, 1904-1990)
Allora, dove collocare il volontariato? come spiegare il comportamento dei volontari?
A mio parere, nel connubio tra libero arbitrio e determinismo mediato dagli istinti, seguendo il senso di Lamarck (Jean Baptiste Lamarck, Naturalista francese, 1744- 1829).
Potrebbe apparire un’ipotesi leggermente azzardata per la nota contrapposizione tra evoluzionismo darwiniano e lamarckismo, ma è proprio nel superamento del paradigma causa – effetto causalistico lineare, e quindi meccanicistico e deterministico, che risiede la possibilità di legittimità di tale affermazione.
Non più azione come conseguenza prevedibile determinata dal fatto, bensì azione frutto di una circolarità idea – fatto.
L’istinto è uno schema innato di comportamento ed è selettivo per vari tipi di stimoli esterni. Pur essendo l’istinto filogeneticamente determinato, il libero arbitrio può essere visto nella libertà ontologica, cioè individuale, di riconoscere lo stimolo e, quindi, nella decisione di reazione, che è intellettuale, cioè cognitiva.
Per contro, più è forte l’attrazione ambientale, più è difficile sottrarsi alla reattività comportamentale.
Ritengo che il richiamo sociale verso la solidarietà non avrebbe adepti se non esistessero organismi preparati “geneticamente” attraverso la trasmissione dei caratteri “umanitari” simile a quella di altre caratteristiche trasmissibili, e in grado di investire emotivamente e affettivamente richiami e incentivi sociali, in base a individuali spinte motivazionali.
Un’altra visione delle motivazioni al volontariato, sorella della precedente, conduce – appunto, come preannunciato – nel regno della prosocialità e dell’Altruismo attinente all’ottattivo, ossia attinente al desiderio e alla potenzialità dell’ottenimento (nel senso di Auguste Comte, filosofo francese, 1798-1857) .
“Bene” come concetto precostituito di “valori” che devono governare in un comunità democratica. Il bene comune non è una mimesi, una copia, storicamente allargata dell’individualìsmo, bensì il frutto di un faticoso lavoro compiuto dalla società per mostrare e per stabilizzare contraddizioni tra etichette o categorie di principi.
Appunto, non più contraddizioni e contrapposizioni tra individualismo e collettività, bensì nuovi principi ispiratori di Altruismo, Solidarietà, Generosità.
Dunque ed infine, che cos’è il volontariato?
E’ espressione concreta e teleologica (finalistica) di Altruismo e Solidarietà.
E’ “fatto giuridico” ed è “contratto“, è “norma sociale“.
E’ incontro traslato di richiami, contenitore di esigenze sociali che non possono considerare una mancata risposta.
Spazio e tempo di esplicitazione della comunità, della costruzione comunitaria e del garantismo dell’uguaglianza.
E, dunque, il Volontario è il Cittadino libero di una Polis comune.
Dott.ssa Grazia Aloi
Psicoanalista | Psicoterapeuta | Sessuologa
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