
Dalla Sympathy all’Einfühlung: genealogia filosofica dell’empatia
Nascita e sviluppo di un concetto complesso
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Il termine “empatia” – nel suo corrispettivo inglese Empathy – è entrato a far parte del lessico comune solo a partire dal XX secolo. Ciononostante la riflessione attorno al “sentire con l’altro” – questo probabilmente il significato più fedele dal punto di vista etimologico – ha radici ben più antiche: nel corso del XVIII secolo, con la filosofia morale di David Hume e Adam Smith, prende corpo l’idea di una Sympathy come fondamento della moralità e della convivenza sociale; nel XIX secolo il termine tedesco Einfühlung inaugura una nuova prospettiva, in primo luogo estetica, che culmina nelle teorie di Theodor Lipps; infine la fenomenologia di Edmund Husserl, Edith Stein e Max Scheler rielabora il concetto di empatia attribuendole un ruolo cruciale nell’esperienza stessa dell’intersoggettività.
La Sympathy di David Hume
Nella sua filosofia morale, l’autore scozzese rigetta sia l’interpretazione egoistica della natura umana – tipica di Thomas Hobbes – sia l’impostazione razionalista di Samuel Clarke, secondo cui la moralità avrebbe fondamento esclusivamente nella ragione. Per Hume la ragione non è in grado di motivare azioni o giudizi etici: essa può collegare idee, ma non orientare passioni e volontà. La fonte della moralità, allora, va ricercata nella dimensione affettiva.
La Sympathy, in questo contesto, diventa il meccanismo psicologico che permette di “ricevere per comunicazione” i sentimenti e le emozioni altrui: attraverso un processo di inferenza basato sulle tracce esteriori – espressioni, gesti, parole – l’individuo è in grado di cogliere gli stati d’animo altrui e di trasformarli da semplici idee in impressioni vivide, fino a farne esperienza in prima persona.
Hume parla della mente come “specchio” che riflette emozioni e opinioni reciproche: non si tratta di un procedimento analogico fine a sé stesso, egli intravede in questo meccanismo la base stessa della moralità e della vita sociale. La Sympathy – difatti – dal momento che consente agli individui di sperimentare le emozioni altrui, li rende anche in grado di giudicare azioni e situazioni che hanno fatto scaturire quelle emozioni stesse: da un lato verranno moralmente approvati piaceri legati ad esperienze virtuose e dolori legati ad esperienze viziose; dall’altro verranno moralmente disapprovati piaceri legati ad esperienze viziose e dolori legati ad esperienze virtuose. L’autore scozzese connette la funzione moralizzante della Sympathy all’assunzione del cosiddetto general point of view, ossia una prospettiva imparziale che permette di giudicare non secondo contingenza, ma in riferimento a criteri condivisi: un individuo può effettivamente “sentire” il piacere del vizioso e comunque non approvarlo moralmente dopo averlo inserito all’interno della cornice sociale in cui si trova ad operare.
Adam Smith e la dimensione sociale
Adam Smith riprende la nozione di Sympathy facendone il fulcro della sua etica. La Sympathy non è semplice condivisione emotiva, bensì capacità immaginativa di “mettersi nei panni dell’altro” adottando il punto di vista dello “spettatore imparziale”: questa figura delinea l’atteggiamento di coloro che tentano di “sentire” come gli altri individui, filtrando tuttavia l’esperienza tramite quella capacità di giudizio che è stata costruita interiorizzando il punto di vista sociale. Lo spettatore imparziale rappresenta l’osservatore ideale esterno, il criterio di valore cui gli individui si rapportano ogni qualvolta agiscono in prima persona o sperimentano i vissuti altrui: gli stati d’animo che accompagnano le azioni individuali vengono misurati e vagliati sulla base di questo riferimento.
La Sympathy smithiana sottolinea e accentua così il carattere eminentemente sociale – soltanto accennato in Hume – della moralità, che diviene un gioco di risonanza collettiva: l’individuo diventa tale solo nello scambio con gli altri, in un continuo esercizio di confronto e rispecchiamento emotivo. Con Smith l’empatia – sebbene non ancora così definita – si configura come condizione costitutiva della vita morale e civile. La moralità è frutto della continua negoziazione con gli altri; la vita morale è relazionale.
La rielaborazione fenomenologica
È all’interno della tradizione fenomenologica – successiva all’elaborazione estetica proposta da Robert Vischer e Theodor Lipps nel XIX secolo – che il concetto di empatia riceve la sua trattazione filosofica più influente.
Edmund Husserl, padre della fenomenologia, riconosce nell’empatia (Einfühlung) l’esperienza originaria attraverso cui l’alterità diventa accessibile: l’altro non è una mera inferenza teorica, ma un vissuto immediato reso possibile dalla struttura della coscienza; l’empatia non è più mera proiezione immaginativa, bensì via d’accesso originaria e immediata all’altro come soggetto vivente. Gli individui si incontrano reciprocamente come corpi dotati di una vita interiore che non viene immaginata, viene “incontrata”.
Edith Stein – allieva di Husserl – approfondisce questa intuizione sostenendo come l’empatia costituisca un atto specifico, distinto dalla percezione e dall’immaginazione, attraverso il quale l’esperienza altrui si dà come tale, senza confondersi con la propria. L’altro viene riconosciuto come “altro soggetto”, portatore di una vita interiore autonoma, non come semplice proiezione o mero risultato di un’inferenza.
Max Scheler, infine, insiste sulla differenza tra Einfühlung e Sympathie: mentre quest’ultima è condivisione emotiva, l’Einfühlung autentica è apertura originaria all’altro, condizione per ogni forma di esperienza intersoggettiva: in sostanza l’empatia diventa riconoscimento immediato e pre-riflessivo che consente, in un secondo momento, di partecipare al dolore o alla gioia altrui. Il rapporto esistenziale che si instaura tra individui non dipende quindi né da processi cognitivi complessi né da processi inferenziali, bensì dalla struttura fondamentale della persona.
Conclusione
Il percorso che va dalla Sympathy illuministica all’Einfühlung fenomenologica mostra quindi un progressivo spostamento di accento: con Hume e Smith l’empatia è concepita come fondamento della moralità e della vita sociale; con Husserl, Stein e Scheler si definisce come struttura costitutiva dell’intersoggettività – prerequisito di quelle.
In questo passaggio, il fenomeno dell’empatia viene progressivamente sottratto al rischio di riduzione psicologistica o sentimentalistica per acquisire statuto filosofico autonomo: essa non è più solo emozione condivisa, ma modalità fondamentale del nostro “essere nel mondo con gli altri”.
L’empatia, prima di divenire concetto scientifico o strumento terapeutico, è quindi sorta come idea filosofica che ha accompagnato la riflessione sull’uomo sin dal Settecento. Dal sentimentalismo morale di Hume e Smith all’estetica di Lipps, fino alla fenomenologia di Husserl, Stein e Scheler, tale elemento si configura come esperienza primaria di apertura all’altro.
La genealogia filosofica dell’empatia pone l’accento su una visione degli individui come elementi non isolati, bensì sempre già inseriti in un tessuto di relazioni, riflessi e risonanze. In questo senso, l’empatia non è un accessorio della vita morale o sociale: è la condizione stessa – connaturata agli individui – della possibilità di un mondo condiviso.
Dott. Andrea Bertocchi
Dottore magistrale in Filosofia e Forme del Sapere
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