
L’inverno come esperienza psichica
Come l’inverno ci spinge a riconsiderare le scelte e i desideri
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Ogni anno, il ciclo delle stagioni ci restituisce qualcosa che la vita moderna cerca in tutti i modi di attutire: la percezione del limite. L’inverno, con la sua luce attenuata, le giornate brevi, il ritmo che rallenta, introduce nella vita psichica un elemento che, nei mesi estivi, resta spesso sotto traccia: il pensiero della fine. Non solo la fine biologica, ma tutte le forme di chiusura, conclusione, limite. In questo senso, l’inverno è meno una stagione e più un tempo psichico: quello in cui il “più tardi” si fa “ora”, e il tempo da vivere si sente finito, tangibile, personale.
Ciò che si restringe, dunque, non è solo la temperatura o la luce solare: è la percezione interna del tempo stesso. Non è un vissuto necessariamente drammatico. Al contrario, può rappresentare una finestra sulla verità, una soglia da cui osservare, con maggiore onestà, quanto della nostra esistenza è aderente a ciò che siamo, e quanto invece risponde a copioni non scelti.
Nel setting terapeutico, questo tipo di vissuto emerge più frequentemente in autunno inoltrato e nei primi mesi invernali: i pazienti parlano di vuoti, di insoddisfazioni che durante l’anno erano rimaste sopite, di una stanchezza che non è solo fisica ma ontologica. È come se, per un attimo, la psiche smettesse di raccontarsi le sue storie rassicuranti e iniziasse a guardare senza filtri.
La consapevolezza della fine come risorsa trasformativa
In psicologia esistenziale, la consapevolezza della morte non è un evento traumatico da evitare, ma un momento di verità. Irvin Yalom lo ha scritto con chiarezza: la morte è un “terapeuta silenzioso” che orienta, ridimensiona, scuote. Quando viene accolta con lucidità, può agire come forza trasformativa.
Il nostro tempo, invece, tende a negarla. Ogni rituale collettivo si muove verso la conservazione, il mantenimento, il prolungamento: la medicina, il marketing, la narrazione del successo, tutto concorre a sospendere il pensiero della fine. Ma è proprio questa sospensione a creare nevrosi, perché la psiche non può svilupparsi completamente se non è anche esposta al suo confine.
L’inverno, simbolicamente e concretamente, riporta quel confine al centro; si restringono le ore, si assottigliano i margini, si riducono le attività. E nello spazio che resta, emerge una domanda antica: come sto usando il tempo che mi è dato?
Questa domanda non ha nulla di tragico, se non la si rifugge. Anzi, è una delle più fertili. Chi riesce a sostenerla senza scappare verso la distrazione, apre la possibilità di riorganizzare la propria vita in modo più autentico. Le priorità si ridisegnano, le relazioni si rivelano per ciò che sono, e ciò che non conta più può essere lasciato andare.
La produttività come anestetico moderno
Uno dei modi più efficaci per evitare la percezione della fine è restare occupati.
La cultura contemporanea ha perfezionato l’arte dell’iperattività come anestesia: si produce, si corre, si performa. Anche l’inverno, che per secoli ha rappresentato un tempo di riposo e raccolta, oggi viene trasformato in un’altra occasione di efficienza.
Il problema non è la produttività in sé, ma il suo uso difensivo.
Quando l’agire diventa un modo per non sentire, per non pensare, per non sentire che il tempo scorre, allora diventa un farmaco, una dipendenza socialmente approvata. Questo vale tanto per il lavoro quanto per il consumo: anche l’intrattenimento può diventare un sedativo, una forma di fuga.
Nel contesto di cura capita spesso che i pazienti parlino di “non riuscire a fermarsi”. Non come vanto, ma come angoscia.
Il bisogno di fare, di pianificare, di riempire ogni spazio è in realtà un tentativo disperato di evitare il vuoto. Ma è proprio quel vuoto che custodisce la possibilità di un incontro con sé stessi. L’inverno, se vissuto per ciò che è, può aiutare a disintossicarsi da questo bisogno di fare, può educare alla stasi, al tempo non produttivo, all’attesa. E da lì, può emergere una nuova domanda: chi sono io, quando non sto facendo nulla? La risposta a questa domanda non è sempre piacevole. Ma è sempre vera.
Il tempo soggettivo e la dimensione del ritorno
Uno degli effetti più affascinanti dell’inverno è che spezza l’illusione del tempo lineare.
Quando tutto rallenta, quando il paesaggio si fa immobile, la mente inizia a lavorare per cicli, per ritorni. Riemergono ricordi, immagini lontane, emozioni dimenticate. È il tempo del ritorno simbolico.
Questo accade spesso in forma di nostalgia, ma non si tratta solo di rimpianto. È piuttosto una riorganizzazione interna: la mente cerca di fare ordine, di attribuire senso al passato per prepararsi a qualcosa di nuovo. Jung parlava di “retroversione dell’energia psichica” come fase necessaria all’individuazione. Prima di procedere, è necessario tornare.
In inverno, le persone ricordano non solo eventi, ma versioni di sé. È frequente che emergano domande su scelte fatte, strade non percorse, amori non vissuti. Non è patologico. È una forma di digestione dell’esistenza; un movimento che, se accolto, può dare origine a nuove visioni.
La psicologia clinica riconosce questo tipo di temporalità come fondamentale per l’integrazione: non si cresce solo progettando, ma anche tornando. Tornare non per rimanere, ma per comprendere.
Il tempo che si restringe ci insegna che il movimento autentico non è sempre in avanti. A volte, è necessario fare silenzio e lasciar emergere ciò che è rimasto indietro.
Finitezza, desiderio, autenticità
Quando il tempo si fa breve, il desiderio si purifica. È una legge psichica. Finché crediamo di avere davanti un orizzonte infinito, possiamo rimandare, negoziare, disperdere ma quando percepiamo la finitezza, qualcosa si stringe. E in quella stretta, il desiderio torna alla sua forma più essenziale.
È un effetto noto anche in ambito ACT (Acceptance and Commitment Therapy): il contatto con la vulnerabilità radicale — dolore, morte, perdita — favorisce il riallineamento ai valori personali. Non è una coincidenza se molte svolte nella vita arrivano dopo un lutto, una malattia, o un inverno interiore.
L’autenticità non nasce da un’idea ma da un’urgenza. E l’inverno, nella sua forma più simbolica, ci restituisce questa urgenza; ricordandoci che non tutto può essere rimandato, che alcune verità vanno dette ora, che certi desideri non sopravvivono all’attesa eterna.
Nel lavoro terapeutico, questo passaggio è delicato. Non si tratta di spingere all’azione immediata, ma di aiutare il paziente a discernere. A capire cosa è davvero suo e cosa invece è stato ereditato, imposto, appreso. Il tempo che si restringe è uno specchio: non riflette tutto, ma riflette ciò che conta.
Imparare a vivere nella luce invernale
Il tempo breve, la luce fioca, il silenzio che si allunga: tutto nell’inverno parla della stessa cosa. Non della fine in sé, ma del suo potere di rivelazione. In un tempo in cui tutto ci spinge a negare il limite, a moltiplicare le esperienze, a rincorrere l’illusione dell’eterno, l’inverno è una forma di verità.
Accoglierlo significa accettare che non tutto si risolve, non tutto si compensa, non tutto può essere rimandato. Alcune cose devono essere vissute ora. Non per urgenza nevrotica, ma per adesione profonda a sé.
Il tempo che si restringe è un’occasione. Non una tragedia. È il tempo in cui si può smettere di fingere, di cercare approvazione, di ripetere copioni. È il tempo per essere. Anche se in modo imperfetto. Anche se con fatica. Perché nella brevità c’è potenza. E nel buio, a volte, una forma nuova di luce.
Dott.ssa Alice Zanotti
Tecnico della Riabilitazione Psichiatrica laureata in Psicologia Clinica e della Riabilitazione
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