
Le radici affettive della violenza di genere
Il ruolo degli stili di attaccamento
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La violenza di genere, in Italia e non solo, è un fenomeno in continuo aumento che non può più essere messo da parte. Com’è tristemente noto, questa tipologia di violenza trova la sua più grave degenerazione nel femminicidio, che spesso costituisce l’esito finale di un lungo percorso di prevaricazione e sopraffazione, manifestatosi in forme più o meno esplicite: dal maltrattamento psicologico alle minacce, fino alle intimidazioni e all’abuso. Tra le diverse cause che possono essere ricondotte ai nuovi episodi di violenza, sempre più sconcertanti e inquietanti, non si possono ignorare, oltre ai fattori sociali e culturali, gli aspetti di natura affettiva e relazionale. In altre parole, una diffusa incapacità degli individui di questa generazione di controllare e gestire le proprie emozioni all’interno delle relazioni.
È proprio da queste evidenze che emerge una nuova prospettiva: la violenza di genere non nasce all’improvviso, ma affonda le sue radici nei modelli relazionali, negli apprendimenti emotivi e, soprattutto, nelle esperienze precoci di attaccamento.
L’attaccamento: base della sicurezza affettiva
Fin dalla nascita, ogni essere umano presenta una naturale predisposizione biologica a sviluppare un legame di attaccamento verso la figura di riferimento, o caregiver, al fine di soddisfare il primario bisogno di sicurezza e di scambio sociale (Bowlby, 1969).
L’attaccamento rappresenta, dunque, il primo legame intimo e costante di un individuo nei confronti del proprio caregiver (spesso la madre). Durante le prime interazioni con la figura di riferimento, il bambino sviluppa aspettative e previsioni su come questi risponderà alle sue richieste di conforto e di cura. Tali previsioni strutturano, nel tempo, delle rappresentazioni di sé, degli altri e delle relazioni, che influenzano la costruzione della personalità e la futura capacità di vivere rapporti affettivi equilibrati (Simpson & Rholes, 2010).
Inizialmente J. Bowlby (1969) e successivamente M. Ainsworth (1978) verificarono che la responsività della madre, ovvero la capacità di rispondere in modo coerente e sensibile ai bisogni del proprio figlio, consente l’emersione di un certo stile di attaccamento che diviene il terreno entro il quale maturano le abilità di regolazione emotiva e il senso di fiducia che il bambino sviluppa verso sé stesso e verso il mondo.
Ainsworth (1978) e Main e Solomon (1990) descrissero quattro principali varianti di attaccamento: sicuro, ambivalente, evitante e disorganizzato. Il genitore che risponde in modo costante e affidabile alle richieste del bambino favorisce lo sviluppo di un attaccamento sicuro, grazie al quale il piccolo si sente libero di esplorare l’ambiente, protetto dal timore di essere abbandonato o rifiutato. I bambini che hanno sperimentato questo tipo di legame diventano adulti capaci di instaurare relazioni basate sulla fiducia, con una visione positiva di sé e degli altri.
Al contrario, l’attaccamento insicuro/ambivalente nasce da un rapporto imprevedibile con il caregiver, caratterizzato dall’ansia costante di perdere la sua attenzione. Il bambino impara che solo attraverso comportamenti coercitivi o di forte dipendenza potrà mantenere la vicinanza dell’adulto. Questa discontinuità affettiva favorisce l’interiorizzazione di un’immagine di sé come “non meritevole d’amore” e genera una costante richiesta di conforto e approvazione.
L’attaccamento evitante, invece, si forma in contesti familiari in cui la figura di riferimento rifiuta o ignora le richieste emotive del figlio. In questo caso, dunque, il bambino impara a reprimere i propri bisogni e a temere l’intimità, costruendo nel tempo una visione negativa sia di sé che dell’altro. Da adulto, tende a evitare relazioni troppo profonde per paura del rifiuto, e a mostrare un’affettività distaccata o disimpegnata.
Infine, l’attaccamento disorganizzato si manifesta in seguito a esperienze di maltrattamento, trascuratezza o abuso da parte del caregiver. Quando la figura che dovrebbe proteggere diventa fonte di paura, generando nel bambino un modello mentale contraddittorio e confuso. La conseguenza è una forte ambivalenza tra desiderio di vicinanza e terrore dell’altro, spesso accompagnata da comportamenti incoerenti e disorientati.
Attaccamento e violenza
Le esperienze vissute dal bambino, con il passare del tempo, si trasformano in rappresentazioni mentali di quelle stesse esperienze. Ciò che inizialmente si manifesta sul piano concreto (come le interazioni con le figure di riferimento) diventa progressivamente un “modello operativo interno”, ossia un’immagine di sé e degli altri costruita attraverso le relazioni.
Come spiega Bowlby, il bambino costruisce nella propria mente un modello del mondo che riflette il modo in cui si aspetta di essere trattato dagli altri (Bowlby, 1973).
Queste rappresentazioni inconsce agiscono come filtri interpretativi: influenzano il modo in cui ciascuno dà significato alle proprie esperienze e tende a cercare relazioni che confermino l’immagine di sé e degli altri interiorizzata in passato.
Ad esempio, un individuo con un attaccamento insicuro-ambivalente può vivere l’altro come una figura da cui dipendere costantemente, ma allo stesso tempo temere di essere abbandonato. Questa dinamica genera spesso comportamenti di controllo e coercizione, che finiscono paradossalmente per allontanare il partner, confermando l’idea che “nessuno è davvero affidabile”. In alcuni casi, tali interazioni possono degenerare in forme di violenza.
Le ricerche empiriche confermano questo legame: Wilson e colleghi (2013) hanno riscontrato livelli più alti di gelosia, possesso e bisogno di controllo nei soggetti con attaccamento insicuro, mentre Sheikh et al. (2013) evidenziano come la bassa autostima associata a questi modelli relazionali favorisca la tendenza a perdonare o subire la violenza di un partner. In entrambi i casi, il comportamento mira inconsciamente a evitare l’abbandono, riflettendo la difficoltà di percepirsi come individui autonomi e degni di amore (Dutton et al., 2006).
Inoltre, un attaccamento non sicuro è correlato a una dis-regolazione della risposta allo stress, visibile anche sul piano fisiologico (Bendezú et al., 2019), e a una maggiore vulnerabilità alle emozioni negative e all’aggressività (Gentzler et al., 2010).
Aver sperimentato determinati stili di attaccamento nell’infanzia può dunque costituire un fattore di rischio per lo sviluppo di relazioni poco equilibrate e rispettose, predisponendo, in alcuni casi, sia a subire sia ad agire violenza (Iavarone & Scuotto, 2025).
Viivere esperienze di maltrattamento o trascuratezza durante l’infanzia aumenta in modo significativo il rischio di riprodurre comportamenti violenti in età adulta, in un sorta di processo di trasmissione intergenerazionale della violenza, nel quale lo stile di attaccamento funge da principale mediatore.
La prevenzione dei rischi
Sebbene non sia possibile stabilire un nesso causale diretto tra stile di attaccamento e comportamenti violenti, appare ormai evidente che la qualità delle cure nell’infanzia rappresenta un elemento decisivo nella prevenzione di condotte disfunzionali e aggressive in età adulta.
John Bowlby, riteneva che un certo stile di attaccamento accompagnasse l’essere umano “dalla culla alla tomba”. Tuttavia, le ricerche successive hanno mostrato che lo stile di attaccamento non è immutabile: può evolversi nel tempo grazie all’incontro con figure di riferimento sicure (un partner, un amico, un educatore o un terapeuta) in grado di favorire la costruzione di nuove rappresentazioni mentali delle relazioni. Difatti le neuroscienze confermano che l’esperienza relazionale può modificare i circuiti neuronali legati alla regolazione emotiva e alla fiducia (Siegel, 2020).
Dunque, le implicazioni che gli stili di attaccamento hanno sulle relazioni adulte evidenziano l’importanza di interventi precoci con le famiglie, soprattutto durante la prima e la seconda infanzia. Gli studi sull’attaccamento intergenerazionale (Tafà & Togliatti, 1998) mostrano come i modelli relazionali interiorizzati vengano spesso trasmessi inconsapevolmente da una generazione all’altra, all’interno dei legami familiari e tra pari.
Per questo motivo è fondamentale promuovere percorsi di formazione e consapevolezza emotiva che coinvolgano non solo i giovani, ma anche i genitori, gli insegnanti e tutte le figure adulte che partecipano alla crescita affettiva dei bambini e degli adolescenti. In tal senso, la scuola può diventare uno spazio privilegiato di educazione emotiva.
Solo attraverso un’azione educativa condivisa e coordinata tra istituzioni, scuola e genitori è possibile interrompere il ciclo della violenza e promuovere una nuova cultura dell’affettività, in cui si possano considerare le relazioni come dei luoghi sicuri in cui sperimentare un amore sano e libero.
Bibliografia
Ainsworth, M.D.S. (1978). The bowlby-ainsworth attachment theory. Behavioral and brain sciences, 1(3), pp. 436-438.
Bendezú, J.J., Loughlin-Presnal, J. E., & Wadsworth, M.E. (2019). Attachment se curity moderates effects of uncontrollable stress on preadolescent hypothalam ic-pituitary-adrenal axis responses: Evidence of regulatory fit. Clinical Psycho logical Science, 7(6), pp. 1355-1371.
Bowlby, J. (1969). Attachment and loss. New York: Random House.
Bowlby, J. (1973). Attachment and loss, Vol. 2: Separation. New York: Basic Books.
Gentzler, A.L., Kerns, K.A., & Keener, E. (2010). Emotional reactions and regula tory responses to negative and positive events: Associations with attachment and gender. Motivation and Emotion, 34, pp. 78-92.
Iavarone, M. L., & Scuotto, C. (2024). Attaccamento, Cura e Responsabilità educativa per la prevenzione della violenza di genere. EDUCATIONAL REFLECTIVE PRACTICES, (2024/1).
Main, M., & Solomon, J. (1990). Procedures for identifying infants as disorganized/disoriented during the Ainsworth Strange Situation. Attachment in thepreschool years: Theory, research, and intervention, 1, pp. 121-160.
Simpson, J.A., & Rholes, W.S. (2010). Attachment and relationships: Milestones and future directions. Journal of Social and Personal Relationships, 27(2), pp. 173-180.
Tafà, M., & Togliatti, M.M. (1998). L’attaccamento oltre l’infanzia: continuità in tergenerazionale e potenzialità evolutive del legame di coppia. Rassegna di Psicologia, (3).

Dott.ssa Chiara Scuotto
Psicologa, Psicoterapeuta in formazione sistemico relazionale e dottoranda in Psicologia
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