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L’antropomorfismo nell’era dell’intelligenza artificiale

Diffusione e conseguenze di un’IA antropomorfizzata

Image by MCB on Unsplash.com


L’antropomorfismo viene definito come la:

Tendenza ad attribuire aspetto, facoltà e destini umani a figure immaginarie, animali e cose. (Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, 2025)

Questa tendenza può riguardare sia caratteristiche fisiche (entità rappresentate come uomini e donne) che attributi mentali (consapevolezza, intenzioni esplicite, emozioni secondarie). Si tratta di un fenomeno ampiamente diffuso, non necessariamente correlato alle caratteristiche dell’oggetto; si possono antropomorfizzare artefatti che non hanno alcuna connessione evolutiva con gli esseri umani o con una costituzione nettamente differente da quella di un essere vivente (Salles, Evers & Farisco, 2020). Forze naturali, animali, gadget tecnologici, dispositivi meccanici, qualsiasi cosa che possa apparentemente agire con indipendenza, può essere antropomorfizzata (Epley et al., 2008).

Così il proprio computer è “dispettoso”, il cane o il gatto prova “vergogna”, un evento ambientale è “vendicativo”. È sufficiente dare un’occhiata alle opere artistiche realizzate da culture di ogni tempo e luogo, per accorgersi di come sia antica e diffusa la pratica di raffigurare dei e dee con sembianze umane.

L’antropomorfismo va oltre la semplice descrizione di un comportamento osservabile (per esempio, la volpe è veloce) o il conferimento di vita a un oggetto non vivente (animismo), implica l’attribuzione di capacità distintamente umane ad agenti non umani (per esempio, la volpe è astuta) (Waytz, Cacioppo & Epley, 2010); generalmente, se ne possono distinguere due forme: debole e forte. Se ci si rivolge alla propria stampante etichettandola come “capricciosa” perché non funziona correttamente ma si ha la consapevolezza che quello strumento non possiede realmente quell’attributo, si parla di antropomorfismo debole. Se invece si definisce “invidioso” il proprio cane con la convinzione che l’animale possieda effettivamente quell’attributo, si assiste ad una forma di antropomorfismo forte. Queste differenti forme determinano i comportamenti e le aspettative che si hanno nei confronti di oggetti, divinità o animali che, nel caso dell’antropomorfismo forte, vengono considerati e trattati al pari degli esseri umani (Epley et al., 2008), è su quest’ultima forma di antropomorfismo che ci focalizzeremo in questo articolo.


Meccanismi psicologici

Perché vi è questa grande tendenza ad antropomorfizzare oggetti, esseri o eventi della realtà?

Secondo la teoria di Epley, Waytz e Cacioppo ( Epley et al., 2007), gli individui ricorrono all’antropomorfismo per cercare di dare un senso al comportamento di agenti non umani. Proprio come avviene per l’effetto spotlight, gli eventi e le azioni vengono spiegati a partire dalle conoscenze che si hanno su di sé e sugli esseri umani in generale; successivamente, man mano che le informazioni sull’agente sconosciuto diventano maggiormente disponibili, vengono effettuati una serie di aggiustamenti nel tentativo di arrivare ad un’interpretazione più oggettiva. Spesso però, nonostante le contromisure adottate, le interpretazioni restano ancorate alle conoscenze iniziali, con la tendenza ad attribuire caratteristiche e motivazioni umane anche ad artefatti che di umano hanno ben poco.

Ma per quale motivo alcuni agenti non umani tendono ad essere antropomorfizzati più di altri?

Per spiegare la variabilità del fenomeno, Epley, Waytz e Cacioppo (ibidem) chiamano in causa due fattori motivazionali che influenzano il processo cognitivo: l’efficacia e la socialità. Il primo si riferisce al bisogno di relazionarsi efficacemente con l’ambiente; trovandosi nella situazione di dover interagire con agenti non umani, gli individui tenderebbero ad attribuire a questi ultimi facoltà umane, nel tentativo di ridurre l’ansia dovuta all’incertezza e di prevederne le azioni future. Il secondo fattore invece, fa riferimento al desiderio di formare legami sociali con altri esseri umani; in assenza di relazioni soddisfacenti, le persone tenderebbero a stabilire connessioni con agenti non umani attraverso l’antropomorfismo, soddisfacendo in questo modo il bisogno di connessione sociale. L’antropomorfismo sarebbe dunque più frequente in presenza di un alto bisogno di interagire con agenti non umani ed una forte motivazione a stabilire legami sociali.


Antropomorfismo e intelligenza artificiale

Fin dalle sue origini, l’intelligenza artificiale (IA) è stata accostata e paragonata all’essere umano, l’obiettivo esplicito del gruppo di lavoro che fu costituito a Dartmouth nel 1956 (anno di nascita della disciplina), era quello di sviluppare una macchina in grado di simulare ogni aspetto dell’intelligenza umana (Cordeschi & Frixione, 2006). L’utilizzo stesso del termine “intelligenza” rappresenta l’attribuzione di una caratteristica umana ad un’entità non umana, evocando determinate aspettative e qualità che il sistema dovrebbe possedere.

I grandi duelli: “Deep Blue vs Garry Kasparov” e “AlphaGO vs Lee Sedol”, hanno senz’altro contribuito a mettere in relazione le capacità dell’IA con quelle dell’essere umano, in entrambi i casi la macchina riuscì a sconfiggere i rappresentanti più forti del genere umano, nel gioco degli scacchi prima e nel gioco del GO dopo, rafforzando ulteriormente la tendenza ad antropomorfizzare queste macchine (Ji, 2024).

Con l’avvento dei modelli linguistici di grandi dimensioni come ChatGPT, si è riacceso l’entusiasmo nei confronti dell’IA, segnando il passaggio da tecnologia riservata a ricercatori ed esperti del settore, a strumento alla portata di tutti, grazie all’interfaccia intuitiva ed all’utilizzo del linguaggio naturale. È ora possibile dare l’istruzione a questi sistemi interagendo all’interno una chat, ricevendo risposte personalizzate che si adattano allo stile linguistico ed al contesto riferito.

È importante sottolineare che, sebbene i modelli linguistici di grandi dimensioni possano riprodurre output simili a quelli generati degli esseri umani, i processi sottostanti sono puramente computazionali (previsione della parola successiva in una sequenza in base alle parole precedenti), totalmente diversi dalla complessità e flessibilità che caratterizza il linguaggio umano (ibidem).

Proprio come accaduto per i precedenti sistemi di IA, anche questi “predittori di testo” sono stati fortemente antropomorfizzati, con l’attribuzione di capacità quali: comprensione, ragionamento, riflessione, coscienza (ibidem). Chiare evidenze si riscontrano sia nel linguaggio che nelle immagini utilizzate per riferirsi ai modelli linguistici odierni: i sistemi “imparano” dai dati, il modello “pensa” più a lungo per rispondere meglio, “riconosce” una persona, un oggetto o un luogo. Le illustrazioni dell’IA che vengono generate e condivise ritraggono spesso esseri con sembianze umane in un contesto futuristico, richiamando sia l’antropomorfismo che un futuro altamente tecnologico, quasi alieno (Van Es & Nguyen, 2025). 


Conseguenze 

L’attribuzione errata e ingiustificata di caratteristiche umane ad entità non umane è un errore di inferenza che porta a trarre delle conclusioni prive di fondamento ed a numerose conseguenze negative (Placani, 2024):

  • L’utilizzo di un linguaggio antropomorfico rende salienti, mette in primo piano, delle facoltà umane che rischiano di occultare il reale funzionamento di questi sistemi, così come i loro limiti;
  • Proiettare empatia, buona volontà, disponibilità, può portare erroneamente a sentimenti di fiducia nell’utente, che considererà le informazioni fornite come affidabili e accurate, sottovalutando il rischio di ottenere risposte errate, incomplete o inventate, le cosiddette “allucinazioni” (ennesimo termine antropomorfizzato);
  • Si potrebbe credere che l’IA sia dotata di mente propria e dunque capace di agire intenzionalmente, che possa essere ritenuta responsabile delle proprie azioni, finendo con l’assolvere altri da eventuali responsabilità;
  • L’antropomorfismo ha un effetto diretto sulla percezione delle potenzialità che si ritiene questi strumenti possano avere, portando ad un’esagerazione delle effettive capacità raggiunte (il cosiddetto hype), in questo modo, lo stato attuale dei sistemi di IA viene travisato, alimentando paure infondate e speranze fallaci;
  • Dimenticarsi di stare interagendo con strumenti di IA, progettati per replicare le caratteristiche che rendono una conversazione piacevole, può spingere le persone ad aumentare il proprio coinvolgimento, incentivando un tipo di interazione idealizzato, con un aumento del rischio di isolamento sociale, soprattutto nelle persone più fragili e sole.

Conclusione

L’antropomorfismo è un fenomeno intrinseco alla natura umana, pressoché universale, utilizzato per dare un senso agli eventi del mondo esterno. Sebbene forme di antropomorfismo debole siano comunemente impiegate e per lo più innocue, è necessario prestare molta attenzione alle forme di antropomorfismo forte, sempre più diffuse e potenzialmente dannose, soprattutto nelle interazioni con i moderni chatbot che implementano l’intelligenza artificiale.

L’antropomorfismo potrebbe infondere false aspettative ed alimentare paure che non poggiano su basi scientifiche, occultando il reale funzionamento di questi strumenti e creando l’illusione di rapportarsi con un essere senziente.

Nell’utilizzare questi sistemi è necessario tenere a mente che non si sta interagendo con un’entità astratta, un’IA neutra ed imparziale, ogni modello viene sviluppato e distribuito da un’azienda che ne definisce il funzionamento e le caratteristiche. Per aumentare il numero di fruitori, vengono progettati strumenti in grado di suscitare emozioni positive, replicando determinati stili di conversazione e riducendo al minimo il rischio di conflitto. Il risultato è un modello estremamente “amichevole” con la tendenza ad “assecondare” ed “incoraggiare” ogni utente, i potenziali effetti negativi che questo tipo di interazione può portare sono numerosi ed è necessario monitorarne l’andamento, soprattutto negli utilizzatori più giovani e fragili.

Bisogna educare gli utenti ad un utilizzo consapevole dei modelli di IA, far comprendere loro che sono strumenti con molte potenzialità e molti limiti, programmati per emulare alcune caratteristiche del linguaggio umano ma che non possono in alcun caso replicare la relazione che si instaura con una persona reale, fatta di condivisione, creatività, emozioni, confronti e conflitti che aiutano a crescere.


Bibliografia

Cordeschi, R., & Frixione, M. (2006). Premessa al documento di Dartmouth. Sistemi intelligenti, 18(3), 407-413
Epley, N., Waytz, A., Akalis, S., & Cacioppo, J. T. (2008). When we need a human: Motivational determinants of anthropomorphism. Social cognition, 26(2), 143-155
Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, (2025); https://www.treccani.it/enciclopedia/antropomorfismo/
Ji, J. J. (2024). Demystify ChatGPT: anthropomorphism around generative AI. GRACE: Global Review of AI Community Ethics, 2(1)
Placani, A. (2024). Anthropomorphism in AI: hype and fallacy. AI and Ethics, 4(3), 691-698
Salles, A., Evers, K., & Farisco, M. (2020). Anthropomorphism in AI. AJOB neuroscience, 11(2), 88-95
Van Es, K., & Nguyen, D. (2025). “Your friendly AI assistant”: the anthropomorphic self-representations of ChatGPT and its implications for imagining AI. AI & SOCIETY, 40(5), 3591-3603
Waytz, A., Cacioppo, J., & Epley, N. (2010). Who sees human? The stability and importance of individual differences in anthropomorphism. Perspectives on psychological science, 5(3), 219-232


Dott. Pietro Ciacco Autore presso La Mente Pensante Magazine
Dott. Pietro Ciacco
Psicologo
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