
Le forme dell’empatia
L’empatia tra psicologia, neuroscienze e scienze sociali.
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A partire dal XX secolo il termine Empathy entra nel lessico scientifico-psicologico con Edward B. Titchener per poi radicarsi in ambito clinico grazie a Sigmund Freud, Heinz Kohut e Carl Rogers.
Il concetto si svincola dalla dimensione filosofica che lo aveva precedentemente caratterizzato, per indicare un vero e proprio strumento di comprensione e cura.
A partire dalla seconda metà del Novecento emergono studi neuroscientifici che ancorano il fenomeno empatico a precisi meccanismi di funzionamento cerebrale e, lungi dal giustificare una visione riduzionistica dei rapporti interpersonali, forniscono la base necessaria per affermare con nuova forza la socialità intrinseca alla specie umana.
L’empatia in psicologia: dalle origini sperimentali alla pratica terapeutica
Nel 1909 Titchener traduce proprio con Empathy il termine tedesco Einfühlung – mutuandolo dalla tradizione estetica al cui interno veniva utilizzato per significare l’esperienza di immedesimazione con l’opera d’arte e inserendolo all’interno della sua psicologia strutturalista. Per Titchener l’empatia non è una forma di immedesimazione mentale che consente al soggetto di comprendere esperienze non proprie; si tratta invece di un concetto legato ad un processo psicologico distinto, la cui definizione apre la strada ad un utilizzo sistematico del termine nel contesto delle scienze della mente. Da questo momento “empatia” diviene parola-chiave per descrivere il fenomeno dell’accesso all’esperienza interiore degli altri.
Emblematico in questo senso l’utilizzo in ambito psicoanalitico, con Freud che concepisce l’empatia come strumento in grado di fornire all’analista accesso a e comprensione di processi e movimenti psichici altrimenti insondabili. Durante il transfert l’empatia non si caratterizza come mera condivisione o partecipazione emotiva: piuttosto rappresenta la capacità di porsi in connessione con le dinamiche inconsce che sottendono alla vita del paziente. Pur senza una definizione teorica dedicata, Freud utilizza l’empatia come metodo di lavoro clinico contraddistinto da comprensione, interpretazione e allo stesso tempo mantenimento della distanza necessaria.
Un salto qualitativo avviene con Heinz Kohut, fondatore della Self Psychology. Per Kohut l’empatia non è solo un ausilio diagnostico, bensì il fulcro stesso del processo terapeutico: il paziente, attraverso l’esperienza di “essere sentito e riconosciuto” empaticamente dall’analista, può ricostruire la coesione del proprio Sé. L’empatia diventa così metodo conoscitivo e fattore terapeutico insieme: permette di comprendere dall’interno la vita psichica dell’altro e, nello stesso tempo, di favorire processi di guarigione. La prospettiva kohutiana sancisce l’ingresso dell’empatia come elemento imprescindibile nella psicoanalisi contemporanea.
Parallelamente, Carl Rogers fa dell’empatia una delle “condizioni necessarie e sufficienti” della relazione terapeutica: insieme all’autenticità e all’accettazione positiva incondizionata, l’empatia costituisce infatti la base dell’approccio rogersiano e viene definita capacità di percepire il mondo interiore del paziente “come se fosse il proprio”; questa sospensione dell’egocentrismo consente alla persona di sentirsi compresa e valorizzata, apre quindi la strada al cambiamento.
I neuroni specchio e la base neurobiologica dell’empatia
A partire dalla seconda metà del Novecento, l’empatia entra con prepotenza in ambito neuro-scientifico grazie alla scoperta dei neuroni specchio. Negli anni Novanta, il gruppo di ricerca guidato da Giacomo Rizzolatti all’Università di Parma collocò elettrodi nella corteccia frontale inferiore di alcuni macachi: l’obiettivo era studiare i neuroni deputati al controllo dei movimenti della mano. In modo inatteso, i ricercatori notarono che alcuni neuroni si attivavano non solo quando la scimmia afferrava un oggetto, ma anche quando osservava un ricercatore compiere la stessa azione. La scoperta, pubblicata nel 1996, mostrava l’esistenza di un meccanismo neurale di “rispecchiamento” delle azioni altrui, destinato ad avere un impatto importante sulle scienze cognitive.
Da allora, l’ipotesi di un “sistema specchio” presente anche nell’uomo ha trasformato il dibattito sull’empatia, aprendo la strada ad una sua interpretazione come predisposizione neurobiologica. Successive ricerche hanno effettivamente individuato un analogo sistema, distribuito nelle aree fronto-parietali: questo sistema si attiva non solo nell’esecuzione e osservazione di azioni, ma anche nella comprensione di intenzioni, emozioni e stati mentali. L’ipotesi avanzata da Vittorio Gallese e collaboratori è quella della “simulazione incarnata”: comprendere gli altri significa attivare in sé stessi i meccanismi neurali che guidano quelle stesse azioni ed emozioni. L’empatia non è dunque un processo puramente cognitivo, ma una condivisione incarnata.
Studi di neuroimaging hanno peraltro mostrato che regioni cerebrali simili si attivano quando proviamo dolore o disgusto e quando osserviamo qualcun altro provarli. Questa sovrapposizione funzionale suggerisce che i meccanismi di rispecchiamento non si limitano alle azioni motorie, ma si estendono alle esperienze emotive; l’empatia affettiva troverebbe quindi un fondamento in processi neurali condivisi che permettono di esperire l’altro come “altro Sé”. Inoltre, il sistema specchio è risultato implicato nell’apprendimento imitativo, sia di gesti già noti sia di nuove competenze motorie. Questi elementi suggeriscono che il rispecchiamento costituisce una base per lo sviluppo di capacità complesse come comunicazione, cooperazione e trasmissione culturale.
La scoperta dei neuroni specchio ha segnato una svolta nel modo di pensare l’empatia: essa non appare più solo come disposizione morale o atteggiamento psicologico, bensì come capacità radicata nella nostra neurofisiologia. Lungi dall’esaurirne la complessità, le neuroscienze mostrano tuttavia come l’empatia abbia un fondamento biologico che si intreccia con le dimensioni cognitive, sociali e culturali.Fine modulo
L’empatia in una prospettiva socio-psicologica
Parallelamente, all’interno delle scienze sociali, il concetto di empatia diviene sempre più gravido di significato: non più disposizione individuale, bensì meccanismo di coordinamento intersoggettivo che rende possibili ruoli, norme, cooperazione e apprendimento condiviso. Tre tradizioni classiche, facenti capo a George Herbert Mead, Wolfgang Köhler e Jean Piaget – offrono letture importanti del fenomeno.
Per Mead mente e Sé costituiscono il precipitato di pratiche sociali mediate da simboli significativi; l’atto empatico è riconfigurato come assunzione di ruolo (role-taking): il soggetto anticipa la risposta dell’altro e “vede” la propria azione dal suo punto di vista. Questo esercizio, reiterato nelle interazioni, consente la formazione del generalized other – ossia delle aspettative del gruppo. In questa prospettiva l’empatia coincide con la capacità di coordinare prospettive in vista di un’azione socialmente adeguata; la sua funzione è strutturale: produce prevedibilità reciproca e delimita l’orizzonte di ciò che è considerato appropriato in un contesto.
La tradizione gestaltica, con Köhler, sottolinea come il significato sociale sia spesso immediatamente percepito come forma (Gestalt) dotata di qualità espressive: rabbia, urgenza, approvazione si colgono al volo come configurazioni dinamiche, non per somma di indizi; in questo senso l’ipotesi dell’isomorfismo tra strutture dell’esperienza e configurazioni neurali spiega perché la dimensione espressivo-affettiva dell’altro sia direttamente accessibile. In sostanza la lettura gestaltica fornisce il correlato fenomenologico di quelle risposte rapide e corporee cui è stato fatto riferimento precedentemente (attivazioni condivise durante l’osservazione di azioni ed emozioni). Con la differenza che, in questo caso, l’accento non è posto sull’architettura neurale, bensì sulla struttura dell’esperienza che rende tali risposte pertinenti e funzionali alla vita di gruppo.
In Piaget, infine, l’empatia si comprende entro la traiettoria che porta dal centramento egocentrico infantile al decentramento progressivo. Con le operazioni concrete, il bambino impara a coordinare punti di vista diversi quando sono ancorati alla situazione; con le operazioni formali può gestire prospettive multiple anche in chiave ipotetico-deduttiva. Questo avanzamento supporta il passaggio dalla morale eteronoma (obbedienza alla regola come imposizione esterna) alla morale autonoma (regola come accordo cooperativo), in cui la considerazione per l’altro non è mera simpatia, bensì riconoscimento di reciprocità e giustificazione. L’empatia in questo caso ha una dimensione cognitiva: è coordinamento di prospettive, prerequisito per negoziare e apprendere in contesti sociali.
Conclusione
L’integrazione tra i livelli affrontati in apertura – psicologia e neuroscienze – e la cornice socio-psicologica conduce a due opzioni interpretative differenti del fenomeno empatico:
- accesso immediato a qualità espressive e risonanza che predispone all’allineamento comportamentale – empatia come fenomeno di rispecchiamento;
- assunzione di ruolo e coordinamento di prospettive che stabilizzano ruoli e norme condivise – empatia come dispositivo di regolazione che permette la costruzione di accordi.
Le due vie non sono in realtà alternative: anzi la combinazione delle visioni spiega perché l’empatia sia al contempo rapida (corporea) e riflessiva (normativa).
Lungi dall’esaurire la propria rilevanza in ambito clinico-sperimentale, l’ancoraggio neurofisiologico chiarisce anzi la funzione strettamente sociale dell’empatia: dal rilevamento di un preciso meccanismo di attivazione di determinate aree cerebrali si può giungere a fenomeni complessi come il role-taking in fase di interazione o l’interiorizzazione del generalized other all’interno dei legami sociali.
Il presente punto di vista non deve essere tacciato di riduzionismo: il nucleo concettuale di fondo non riguarda il meccanismo neuro-fisiologico come base sufficiente per l’emergere di determinate dinamiche tipicamente sociali; l’attivazione cerebrale costituisce tuttavia una precondizione imprescindibile e necessaria affinché quelle dinamiche possano poi rivelarsi funzionali al coesistere di più individui.
Bibliografia
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Köhler, W. (1929). Gestalt psychology. Liveright.
Mead, G. H. (1934). Mind, self, and society. University of Chicago Press.
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Rizzolatti, G., & Craighero, L. (2004). The mirror-neuron system. Annual Review of Neuroscience, 27, 169–192.
Rogers, C. R. (1957). The necessary and sufficient conditions of therapeutic personality change. Journal of Consulting Psychology, 21(2), 95–103.
Singer, T., Seymour, B., O’Doherty, J. P., Kaube, H., Dolan, R. J., & Frith, C. D. (2004). Empathy for pain involves the affective but not sensory components of pain. Science, 303(5661), 1157–1162.

Dott. Andrea Bertocchi
Dottore magistrale in Filosofia e Forme del Sapere
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