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L’atto che prende il posto della parola: mente, trauma e violenza

Il filo invisibile tra corpo, mente e memoria

Image by Amber Kipp on Unsplash.com


Cosa accade nella mente e nel cervello di chi compie un atto violento? E perché, tanto nelle vittime traumatizzate quanto negli autori di crimini, si osservano fenomeni simili: vuoti di memoria, emozioni di terrore, incapacità di dire ciò che si è vissuto?

A queste domande cerca di rispondere la professoressa Giorgia Tiscini, docente e ricercatrice specializzata nello studio del crimine, della memoria e del trauma, che affronta queste domande attraverso un approccio che integra psicoanalisi, neuroscienze e teoria del linguaggio. Al centro della sua riflessione c’è il concetto di “passaggio all’atto, che in psicoanalisi indica l’espressione di un conflitto interiore vissuto attraverso l’azione invece che attraverso la parola. Quando il soggetto non riesce a parlare del trauma, quando l’esperienza vissuta è troppo dolorosa o non trova una forma simbolica, interviene il corpo che agisce, cioè il corpo mette in atto ciò che la mente non riesce a pensare. Il passaggio all’atto è dunque un gesto non rielaborato, una scarica degli impulsi, che sostituisce il linguaggio e tenta di regolare una tensione interiore insopportabile. Come ricordava anche Freud, esistono contenuti dell’inconscio che restano “inaccessibili al linguaggio”: ciò che non può essere detto, viene agito.

Le ricerche condotte dalla professoressa Tiscini mostrano che nei soggetti coinvolti in esperienze traumatiche si manifestano due poli opposti della memoria. Da un lato il vuoto di memoria, in cui l’evento traumatico scompare dalla coscienza come se non fosse mai accaduto; dall’altro l’eccesso di memoria, in cui il trauma ritorna continuamente, ossessivamente, sotto forma di flashback o immagini intrusive. In entrambi i casi la persona resta intrappolata nel tempo del trauma, in un eterno presente sospeso tra passato e futuro. Le emozioni che accompagnano questo stato — vergogna, colpa, terrore, ansia — testimoniano la difficoltà di trasformare l’esperienza in racconto; quindi, in parola che in questo senso renderebbe il fatto condivisibile.

Un elemento centrale di questo meccanismo è la vergogna, che non è solo un’emozione morale, ma un potente fattore di disregolazione emotiva. Uno studio del 2012 ha evidenziato come proprio la vergogna possa essere all’origine del passaggio all’atto: chi la prova intensamente tende ad agire per sfuggirvi. Dopo un atto violento, molti soggetti entrano così in un ciclo psicologico ripetitivo: atto – vergogna – colpa – autoaggressione. La vergogna alimenta la rabbia, la rabbia alimenta nuovi comportamenti impulsivi e la spirale continua. Spesso, in questa dinamica distruttiva, si inserisce anche l’uso di sostanze, come tentativo di anestetizzare l’emozione insopportabile.

In questo intreccio tra linguaggio, memoria e corpo, l’atto violento appare allora come un modo estremo — e fallimentare — di dare forma a ciò che è il contenuto del “non detto”. Il gesto prende il posto della parola, ma non la sostituisce: resta il segno di un dolore che non ha ancora trovato voce.


Dentro il cervello del trauma

Sul piano psicologico, il trauma colpisce direttamente la capacità di raccontare. Sia le vittime, sia gli autori di crimini violenti si trovano spesso a formulare le stesse domande: „Cosa mi è stato fatto?” e “Perché l’ho fatto? “interrogativi che rivelano non solo un vuoto di memoria, ma anche un vuoto di significato in quanto il soggetto perde un punto interno di riferimento da cui comprendere l’evento. La parola non basta più; e senza parola, il trauma resta un buco nella narrazione del sé, un ricordo che non diventa mai storia, un frammento che non riesce a trovare il suo posto nel tempo. Le neuroscienze confermano che il trauma lascia un’impronta visibile nel cervello, tramite ricerche di neuroimaging sono stati riscontrati dei pattern precisi: l’amigdala, una struttura che regola le emozioni, risulta iperattiva nei soggetti traumatizzati, come un allarme costantemente acceso, mentre nei criminali impulsivi può apparire ipoattiva, riducendo la capacità di provare empatia o paura. L’ippocampo, una struttura che gestisce la memoria contestuale e temporale, presenta spesso un volume ridotto e un’attività limitata, segno di una difficoltà nel collocare l’esperienza traumatica nel tempo. La corteccia prefrontale, sede del controllo cognitivo e dell’inibizione, mostra un’attività ridotta, compromettendo la capacità di autoregolarsi. Già Freud, nel celebre appunto sul “Notes magico” (1924), aveva intuito che la memoria funziona come un sistema doppio: uno deputato alla registrazione temporanea delle esperienze e un altro destinato a conservarne le tracce in modo permanente; infatti, anche le neuroscienze contemporanee hanno confermato questa intuizione: il processo di consolidamento e riconsolidamento dei ricordi (Bouton, 2004) è strettamente legato alle emozioni (LeDoux, 1983). Quando si verifica un trauma, tuttavia, questo meccanismo si altera, dando origine a ricordi sfocati o frammentati, come descritto dalla Fuzzy Trace Theory (FTT) (2002) Charles Brainerd e Valerie F. Reyna, che non riescono a integrarsi pienamente nella coscienza. Da questo meccanismo si forma una memoria “ferita”: troppo intensa per essere dimenticata, ma al tempo stesso troppo dolorosa per essere ricordata. La professoressa Giorgia Tiscini racconta il caso di un paziente, che chiama il signor H., autore di un atto violento. Dopo il crimine, l’uomo affermava di non ricordare nulla: “Non ricordo nessuna voce”, ripeteva. Quel vuoto, spiega la Prof.ssa Tiscini, non era semplice amnesia, ma una difesa psichica, un meccanismo che gli permetteva di sopravvivere a ricordi troppo opprimenti. Tuttavia, nel momento in cui tentò di ricordare volontariamente, il contatto con quel vuoto riaccese la stessa tensione che lo aveva spinto ad agire. In lui, il trauma oscillava costantemente tra eccesso e assenza di memoria, in un fragile tentativo di mantenere un equilibrio psichico ormai perduto.


Quando il corpo perde l’equilibrio

Un altro meccanismo interessante che interagisce con la stabilizzazione del ricordo traumatico è il concetto di omeostasi. Il concetto di omeostasi in psicologia deriva dalla biologia, ed indica la capacità di un organismo di mantenere un equilibrio interno stabile nonostante le variazioni dell’ambiente esterno. In questo caso le recenti teorie di Karl Friston e Anil Seth introducono al contrario, il concetto di disomeostasi, ovvero la perdita prolungata dell’equilibrio interno tra corpo, mente e ambiente. Nel trauma, infatti, il cervello non riesce più a prevedere e regolare gli stimoli, restando intrappolato in uno stato di allerta cronica, in cui ogni segnale viene percepito come una minaccia. Da questa condizione scaturisce la sensazione di perdita di controllo e di “desoggetivazione”, ovvero la frattura del senso di sé. Un ruolo cruciale in questo processo è svolto dalla corteccia insulare, l’area cerebrale responsabile della percezione interna del corpo, o interocezione. Quando questa mappa corporea si altera, la persona non riesce più a “sentirsi” in modo coerente: il corpo diventa così il teatro del trauma, il luogo in cui si inscrive il dolore e in cui, spesso attraverso l’atto, si tenta di ristabilire un equilibrio perduto.


Conclusione

In definitiva, il percorso tracciato dalla professoressa Giorgia Tiscini mette in luce quanto sottile e potente sia il legame tra mente, corpo e linguaggio. Il trauma, sia nelle vittime che negli autori di violenza, rappresenta una frattura nella continuità dell’esperienza e della narrazione di sé: ciò che non può essere detto si incarna nel corpo, si traduce in gesto, diventa atto. La violenza, allora, non è solo un’espressione di distruttività, ma anche — paradossalmente — un tentativo fallito di dare forma a un dolore muto, di rendere visibile ciò che la parola non riesce a contenere. Restituire la parola a ciò che è stato agito significa restituire senso, tempo e identità a chi ha perso la capacità di raccontarsi. È questo, in fondo, il compito della cura: trasformare l’atto in linguaggio, l’impulso in pensiero, la ferita in memoria condivisa. Solo attraverso questo passaggio la mente può ritrovare un equilibrio e il corpo può smettere di portare da solo il peso del trauma. In questa riconciliazione tra parola e gesto, tra psiche e corpo, si apre la possibilità di una vera riparazione, non solo individuale ma anche collettiva.


Bibliografia

-Bouton, M. E. (2004). Context and Behavioral Processes in Extinction. Learning & Memory, 11(5), 485–494.
-Friston, K. (2010). The free-energy principle: a unified brain theory? Nature Reviews Neuroscience, 11(2), 127–138.
-Freud, S. (1924). Note sul “blocco magico” (Das Notizbuch Magico). In Opere (Vol. 10). Torino: Bollati Boringhieri, 1977.
-LeDoux, J. E. (1983). Cognitive–Emotional Interactions in the Brain. Cognition and Emotion, 1(3), 69–109.
-Reyna, V. F., & Brainerd, C. J. (1995/2002). Fuzzy-Trace Theory: An Interim Synthesis. Learning and Individual Differences, 12(2), 125–161.
-Seth, A. K. (2021). Being You: A New Science of Consciousness. London: Faber & Faber.
-Tiscini, G. (2019). Trauma e memoria: il corpo come scena del linguaggio. Milano: FrancoAngeli.
-Tiscini, G. (2023). Crimine e trauma: la mente, il corpo, la parola. Roma: Carocci.
– Tracy, J. L., & Robins, R. W. (2007). The Nature of Pride and Shame: Theoretical Perspectives and Empirical Findings. Journal of Personality and Social Psychology, 92(1), 56–72.


Dott.ssa Laura Braun Wimmer Autrice presso La Mente Pensante Magazine
Dott.ssa Laura Braun Wimmer
Psicologa
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