Primo Maggio: è veramente un giorno da festeggiare?
Una visione politically non correct della festa dei lavoratori [Parte 1]
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Alcuni dei miei prossimi articoli saranno un po’ diversi rispetto ai precedenti, anche se il filo conduttore verterà sempre sul tentativo di decostruire alcuni aspetti del quotidiano molto spesso dati per scontati. Proporrò alcune mie visioni alternative su argomenti anche molto distanti fra loro che spaziano da modi di dire, luoghi comuni, universi simbolici, ecc.
Come primo articolo ho deciso di dare una visione politically non correct della festa del primo maggio e tutto ciò che ad essa è connessa.
Anche se può apparire ovvio desidero ribadire che ciò che scrivo sono concezioni del mio sentire e non pretendono di affermare alcuna verità oggettiva.
Per esigenze editoriali l’articolo è stato diviso in due parti e la seconda parte verrà pubblicata il mese prossimo.
Articolo 1
Oggi, giorno in cui scrivo questo articolo, è il primo maggio 2023 e come tutti gli anni nella Piazza S. Giovanni di Roma si svolge il concertone tradizionale del primo maggio. In questa edizione i sindacati organizzatori hanno messo bene in evidenza sul palco la dicitura l’articolo 1 della Costituzione Italiana che così recita:
L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.
Tralascio l’analisi di alcuni concetti ormai vuoti come “democrazia“, “sovranità” ed il verbo “esercitare” inseriti in questo primo articolo, così come tralascio l’approfondimento delle ipocrisie dei sindacati che insieme a tutti i governi di disparati colori, hanno colluso con la distruzione della dignità del lavoro e mi concentro solamente su un dubbio che gravita nella mia mente e nel mio sentire da diverso tempo:
Ma veramente c’è da rallegrarsi che la vita di un essere umano si debba basare sul lavoro?
Etimologia
Come mia abitudine andiamo a ricercare l’etimologia del termine “lavoro”. Come molti già sanno esso deriva dal latino “labor” che aveva come significato “fatica”, “sforzo”, “pena”, non certo un buon biglietto da visita quindi. Ma oltre all’etimologia vorrei descrivere la sua evoluzione concettuale prendendo come riferimento un articolo di Enzo Rutigliano del Dipartimento di Sociologia dell’Università di Trento, “Lavoro: appunti per la metamorfosi di un concetto” (Rutigliano).
Le trasformazioni del termine
Secondo Rutigliano questo termine assume dei significati che vanno da quello di maledizione a quello di diritto per passare addirittura a quello di redenzione e mezzo di redenzione.
Riportando quanto scritto dall’Enciclopedia Einaudi egli evidenzia come in Francia, verso il 1120, il termine “labor” derivò dal termine “labeur” che designava soprattutto le attività agricole mentre il termine “labour” o “labourage“ designava invece colui che coltivava la terra. A partire dalla fine del XV secolo il termine travail assunse il significato moderno di “opera da fare” ma bisognerà attendere la fine del XVII per vedere infine apparire il termine “travailleur” (Ibidem).
È interessante anche la storia di un altro termine francese, “travail“, che denota sempre il lavoro, perché in realtà esso era apparso molto prima a partire dal secolo XVI per designare uno strumento di tortura, il tripalium “composto di tre pali”, mentre il termine “travailleur” in quel contesto denotava invece il boia (Ibidem).
Come ultima nota sull’origine e la trasformazione del termine è da evidenziare come in spagnolo il termine”trabajo” significava “mettere al mondo”, “essere partorienti”mentre attualmente indica anche il “lavorare”.
Insomma, questo termine è pesantemente associato alla sofferenza, alla fatica e al dolore.
L’origine archetipica
Prima ancora di tutte queste trasformazioni concettuali l’associazione del lavoro alla fatica ed alla sofferenza può esser fatta risalire alla Bibbia perché in essa si configura come una maledizione per aver voluto assaporare il frutto della conoscenza il cui divieto era:
Puoi mangiare il frutto di qualsiasi albero del giardino, ma non quello dell’albero che infonde la conoscenza di tutto. (Genesi 2.15)
La punizione conseguente a questa trasgressione prevede anche questa affermazione:
Ti procurerai il pane col sudore del tuo volto (Genesi 3.17-18).
Quest’ultima affermazione della Bibbia si configura quindi come un potente archetipo negativo tuttora presente nelle nostre psicologie e le nostre credenze… sì, perché si tratta solo di credenze (Papadopoulos 2014).
Durante il Medio Evo però, come sostiene Rutigliano, si perpetuò un contrasto fra vita contemplativa e vita activa che rappresentava la contrapposizione tra la sfera ecclesiastica, a cui competeva ed era riservata la cura delle cose spirituali e la sfera mondana a cui attenevano le cose pratiche, active, dunque al labor (Rutigliano). A quest’ultimo, per tutto il periodo medioevale fu concettualmente riservato un ruolo inferiore perché l’archetipo negativo del lavoro come maledizione ed espiazione era molto presente in quel contesto dominato dalle autorità ecclesiali. Probabilmente, una delle poche eccezioni a questa concettualizzazione è costituita dal motto dei benedettini: “Ora et labora” dove il labor viene concettualizzato come affine all’opera della creazione divina (Ibidem).
L’etica protestante
Con Lutero e Calvino il lavoro assume una caratteristica diametralmente opposta perché diventa vocazione, ovvero chiamata divina e di conseguenza il lavoro diventa un dovere del buon cristiano. Non è un caso che il grande sociologo Max Weber, nel suo testo fondamentale “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo“, riscontra proprio in questa visione opposta l’origine e le basi su cui si fonda il capitalismo moderno (Weber 1904). Con Lutero e Calvino, quindi, il lavoro si trasforma in fondamento e chiave dell’esistenza perché il labor si configura come servizio a Dio. Di conseguenza l’otium, che nel mondo classico greco e romano aveva una connotazione positiva, si trasforma in una “attività contro natura (Rutigliano). Secondo Rutigliano per capire e spiegarsi questo capovolgimento del concetto bisogna riferirsi al Rinascimento italiano, dove il lavoro diventa il mezzo di realizzazione della propria personalità.
Harakiri
Similmente, dall’altra parte del mondo, in Giappone, una società fondiaria e molto tradizionalista, il servizio verso il proprio signore veniva considerato come l’onore più alto fino ad arrivare a sacrificare la propria vita nei casi in cui non si era riusciti ad onorare i voleri del proprio signore. La pratica dell’harakiri, ovvero, Il taglio del ventre ritenuto dai giapponesi la sede dell’anima, aveva una funzione di riscatto e di ostentazione della purezza e l’integrità del proprio animo. In alti casi si configurava come una sorta di morte onorevole come forma di espiazione per qualcosa che si era commesso o o per qualche compito mancato. Lo stesso fenomeno dei kamikaze, sviluppatosi durante la seconda guerra mondiale, può esser fatto rientrare i questo atteggiamento di servizio verso il proprio signore che in quel caso era rappresentato dallo stato giapponese e dall’imperatore. Ai giorni d’oggi in Giappone questo asservimento verso il proprio signore lo ritroviamo come asservimento alla macchina produttiva delle società produttive (Terzani 1998). L’antico harakiri si è trasformato da suicidio del corpo a suicidio del proprio tempo per il bene della società per cui si lavora.
Conlusioni
Sicuramente, per così come è strutturata la nostra società Occidentale, il mondo del lavoro, ci mette di fronte a diversi paradossi o ricatti, se vogliamo usare il termine più consono per questo ambito: da una parte si anela al lavoro mentre dall’altra lo si sente come un peso. È anche vero però che alcuni lavori sono percepiti come non lavori, ovvero non si percepisce il senso dalle fatica e dell’obbligo perché particolarmente gratificanti. Penso ad esempio agli artisti che hanno un bisogno quasi fisico di creare delle proprie opere, ma per avere questo tipo di gratificazione non necessariamente bisogna essere artisti perché molti lavori hanno questo aspetto di creatività. Il fatto è che quando la creazione diventa merce e deve essere disconnessa dall’ispirazione per diventare routine questa gratificazione si può trasformare in una condanna.
Dopo questa breve panoramica storica sul concetto del labor nella seconda parte di questo articolo, che verrà pubblicata nel mese di giugno, esporrò quella che secondo me, e soprattutto secondo pensatori di gran lunga più illustri di me, rappresenta la vera natura del lavoro. Inoltre fornirò la mia risposta alla domanda in riferimento al primo articolo della Costituzione italiana posta all’inizio di questa riflessione… Ma sicuramente anche voi avete già la vostra risposta.
Bibliografia
Papadopoulos I., La teoria generale dei pregiudizi di base, Armando Editore, Roma 2014.
Rutigliano E., Lavoro: appunti per la metamorfosi di un concetto.
Weber M., (1094), L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Rizzoli, Milano 1991.
Dott. Ivo Papadopoulos
Psicologo Clinico | Sociologo
Bio | Articoli | Intervista Scrittori Pensanti | AIIP Novembre 2023
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