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Scrivere: tra desideri e conflitti interiori

Uno spaccato di vita quotidiana


Ore 4.57 del mattino, anche oggi sono riuscito ad evitare che la sveglia facesse il suo lavoro. Indipendentemente dall’orario su cui è impostata (per la cronaca, le 5 del mattino), il mio cervello si riattiva sempre qualche minuto prima che essa suoni.

“Anche oggi ti ho battuto”, penso mentre disabilito l’applicazione sull’Apple Watch.

Facendo qualche piccola ricerca, scopro che il fenomeno di svegliarsi prima che suoni la sveglia viene spiegato attraverso il concetto dell’autoregolazione del corpo e del “ritmo circadiano” allenato, in parole povere quando abituiamo il nostro corpo ad andare a letto e a svegliarsi sempre alla stessa ora.

C’è anche chi, invece, associa questo fenomeno a stati di ansia e stress oppure a qualche attività nascosta del subconscio.

A questo “strano” fenomeno io ho attribuito un significato del tutto personale. Una motivazione non scientifica su cui ho riflettuto e in cui ho voluto trovare, come mio solito, un significato più profondo.

Aprire gli occhi prima che suoni la sveglia, per me, è un impulso del mio cervello o, se volete, del mio subconscio a sottolineare la volontà di agire senza essere condizionati dal volere di un agente esterno.

A parte il fastidio che più o meno tutti proviamo all’orribile suono della sveglia, è come se ogni mattina volessi ricordare a me stesso che niente e nessuno deve avere il potere di condizionare e/o di interferire con la mia volontà o con il raggiungimento dei miei obiettivi. In poche parole, il fatto di volermi svegliare alle 5 del mattino o meno deve dipendere esclusivamente dalla mia volontà e non dalla volontà di una sveglia elettronica, che per altro io stesso ho programmato il giorno precedente. Follia? Forse sì!

Il mondo è come ce lo mettiamo in testa,

dice spesso un mio carissimo amico, e io sono pienamente d’accordo.


Silenzio

Ore 5.15, in un silenzio che, purtroppo, non è più totale, siedo al tavolo della cucina.

Da quasi vent’anni ho un ronzio perenne all’orecchio sinistro che mi ha privato della gioia di non sentire volare una mosca.

La denominazione scientifica di questa patologia è acufene.

Non esiste una cura, si manifesta quando meno te l’aspetti e ti ci devi abituare. A parte alcuni periodi in cui il ronzio è più accentuato, credo di essermi abituato. Ma per una persona riflessiva, riservata e, se vogliamo, chiusa come me, il silenzio assoluto è qualcosa che mi manca.

Apro il mio laptop e il programma di videoscrittura è già pronto, è lì ad aspettarmi. Il cursore lampeggia vicino all’ultima parola che ho scritto ieri. Rileggo l’ultimo paragrafo, non mi piace. Rileggo l’intero articolo, non funziona. Chiudo il file, ne apro uno completamente nuovo e inizio da capo.

Una vocina interna mi elenca tutti i motivi per cui, forse, oggi non è la giornata adatta per scrivere un nuovo articolo, dopo qualche minuto decido di assecondarla. Ma qualcosa dovrò pur scrivere. È una promessa che ho fatto a me stesso e devo mantenerla.

Decido di spostare la mia attenzione su un altro progetto. Forse il più ambizioso della mia vita: la scrittura del mio primo libro. È fermo da qualche giorno e mi sento in colpa.

Leggo gli ultimi paragrafi. Dove sono arrivato?, mi chiedo. Ma, soprattutto, dove sto andando?

Lascio lampeggiare il cursore ancora per qualche minuto, poi le prime parole, una, due, tre, poi cinque, poi dieci. Man mano che mi lascio andare, ricordi, persone, momenti che credevo di aver dimenticato ritornano sotto forma di parole, frasi e paragrafi. Sono felice. Sento una vocina timida e lontana che ripete “You’re a writer”. Credo di trovarmi in quello che chiamano lo stato di “flow”, completamente assorto, io, il mio computer e le mie parole.

In questo momento mi sento uno scrittore, sensazione meravigliosa che però dura poco. Troppo poco.


Combattere con sé stessi

Avrò scritto all’incirca trecento parole. Mi fermo, rileggo. Il tono della vocina interiore cambia. Adesso è molto più forte e non sembra avere nessun tipo di compassione o timidezza.

“Ma tu veramente credi di essere in grado di scrivere?”, dice la voce con tono sarcastico. “Non vorrai mica credere alla favoletta che tutti possono scrivere un libro?”, “Lo sai anche tu che non hai le capacità e la cultura per scrivere”.

Un improvviso senso di ansia e un vuoto allo stomaco mi catapultano nella solita spirale di pessimismo e negatività da cui spesso ho difficoltà ad uscire.

Desiderare qualcosa e allo stesso tempo credere nella propria incapacità di poter ottenere quella “cosa” è la più grande dannazione a cui molti esseri umani sono soggetti.

Scrivo, tutti i giorni e da parecchi anni. Il mio desiderio non è quello di scrivere per vivere, ma di vivere il più a lungo possibile per poter scrivere.

Questo nobile desiderio viene spesso macchiato dalla convinzione di non avere abbastanza capacità, conoscenze, cultura e talento per riuscirci, per potermi un giorno definire uno scrittore.

Studio, leggo, scrivo e riscrivo. In quei rari momenti in cui la mia spiccata immaginazione risulta essere più positiva del solito, immagino un futuro in cui potrò parlare davanti a un pubblico dei miei libri e delle fatiche dietro quei lavori, ma anche dei cambiamenti che hanno portato nella mia vita e dell’impatto che, spero, possano avere sulla vita degli altri.

Poi torno alla realtà, dove una marea di dubbi, paure e conflitti interiori mi travolgono senza pietà.

“Chiudi questo benedetto computer, smettila di perdere tempo, e dedicati a qualcosa che sai davvero fare”, continua la vocina dissacrante nella mia testa.

Una battaglia quotidiana, insomma, tra quello che voglio e quello che penso di essere in grado di ottenere. Fortunatamente, però, noto che più è sanguinosa la battaglia, più cresce nel mio cuore il desiderio di riuscire, o per lo meno di provarci senza lasciare nulla di intentato.

Riprendo a scrivere, ma senza alcuna pietà la mia voce interiore sferra un altro colpo: “Ma chi ti credi di essere per poter anche solo pensare di scrivere un libro che parla di te? A chi vuoi che interessino i tuoi casini? A chi vuoi che importi il male che hai fatto, o quello che ti hanno fatto? Chi vuoi che possa mai voler leggere delle battaglie che hai vinto, di quelle che hai perso e di quelle che hai miseramente rinunciato a combattere solo per paura di perdere? Tu dimmi a chi interesserà mai sapere chi sei? Te lo dico io: a nessuno!”.

Un pugno nello stomaco che ti toglie il fiato. Mi arrendo, oggi la battaglia è persa. Chiudo il laptop. Mi guardo intorno, fuori è ancora buio. È passata solo un’ora da quando mi sono seduto a scrivere, ma mi sento stanco come se fossi lì da due giorni.

Le mie battaglie mentali sono sempre state più estenuanti di quelle fisiche, tanto che spesso, per stemperare la tensione che appesantisce il mio cuore e la mia anima, mi concedo lunghe corse dove i chilometri si trasformano in momenti di riflessione, di studio e di crescita.

La lotta oggi è stata feroce. Passo dal tavolo della cucina alla poltrona del salotto e, dopo aver indossato le scarpe da corsa, cerco di rilassarmi, chiudendo gli occhi e facendo tre respiri profondi.

Mi sento meglio, ma sono ancora stordito da quelle parole. Sul tavolino alla mia sinistra c’è quell’appassionante libro che sto leggendo. Sulla copertina, un giovane dagli occhi chiari proveniente da un’epoca lontana, sembra fissarmi. Nel suo sguardo vedo la compassione di chi riesce a capirti e la determinazione di chi ti spinge ad andare avanti.

Apro il libro, lo sfoglio distrattamente. Leggo…

Martin, se tutte le porte sono chiuse come dici tu, com’è possibile che i grandi scrittori ce l’abbiano fatta? Ce l’hanno fatta realizzando l’impossibile. Hanno compiuto opere così sfolgoranti e gloriose da incenerire tutti quelli che hanno cercato di osteggiarli. È un miracolo che ce l’abbiano fatta, vincendo una scommessa che li dava perdenti mille a uno. Ce l’hanno fatta perché erano i giganti di Carlyle, ricoperti dalle cicatrici delle battaglie, e nessuno è riuscito a sottometterli. Ed è quello che devo fare anch’io, realizzare l’impossibile.1


Impariamo ad ascoltarci

Tutti abbiamo dei sogni e, purtroppo, tutti abbiamo anche dei conflitti con cui dover combattere. Conflitti spesso alimentati da false convinzioni su quello che pensiamo di poter fare o non fare, e sulle capacità che pensiamo di non avere e che ci permetterebbero, invece, di realizzare ciò che desideriamo.

Spesso chiudiamo i nostri sogni in vecchie cassapanche da soffitta a prendere polvere fino a che non è troppo tardi e si sono ormai trasformati in rimpianti troppo difficili da curare.

Vivere una vita senza dubbi e senza paure è un obiettivo irraggiungibile. Ciò che, però, possiamo sicuramente fare è migliorare la consapevolezza di quali siano le forze interne che ci remano contro.

Un conflitto interiore non è sempre una voce maligna che ci vuole ostacolare, anzi, il più delle volte è quella voce che cerca di proteggerci da un’eventuale sconfitta. Impariamo ad ascoltarci.

Ascoltiamo la voce che ci sprona, quella che ci spinge verso i nostri obiettivi più importanti, ma ascoltiamo anche quella che sembra ostacolare i nostri passi.

Come due genitori amorevoli e protettivi, entrambe le voci sono parte della stessa identità, entrambe vogliono il nostro benessere.

Chiudo il libro. Attraverso gli occhi di quel giovane Martin Eden, nato dalla fantasia del suo autore più di cento anni fa, rivedo le mie battaglie quotidiane.

Sorrido, ritorno al mio laptop e scrivo questo articolo.

Oggi qualcosa è cambiato. Non ho vinto la battaglia, né tantomeno la guerra, ma ho avuto almeno il coraggio di provarci e di lottare nonostante tutta la negatività che ho prodotto da solo e contro me stesso.

Non so se arriverò mai a realizzare il mio sogno di scrittore, ma una cosa è certa, continuerò a lottare per rispettare almeno la promessa che ho fatto a me stesso tanto tempo fa: scrivere.


Bibliografia

1. Brano tratto da “Martin Eden” di Jack London, 1909, Feltrinelli Classici


Antonio Esposito Editor-In-Chief e Autore presso La Mente Pensante
Antonio Esposito
LMP Editor-In-Chief | Life Coach | Mentor
Bio | Articoli
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