Psiche e animalità politica
Riflessione psicologica in ambito politico
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Non si può iniziare una rubrica di psicologia politica se non affrontando subito il tema dei temi della riflessione psicologica in ambito politico ovvero: se siamo “animali politici”, secondo la celebre affermazione di Aristotele[1], perché non tutti fanno politica?
Perché, tanto nel c.d. Occidente che nel resto del mondo, solo una minoranza di individui, prevalentemente appartenenti ai ceti medio alti, agisce attivamente in politica, anche se spesso non in prima persona, mentre la stragrande maggioranza, quasi sempre i ceti subalterni, che paradossalmente avrebbero nella politica uno strumento di riscatto, non solo è disinteressata alle vicende politiche ma spesso manifesta apertamente un atteggiamento denigrante e di viscerale disgusto nei confronti del mondo politico?
Un sociologo avrebbe molto da dire su come la stratificazione sociale impatti sulla condizione esistenziale di ognuno; della necessità dei ceti medio alti di assicurarsi il controllo delle “ragioni” sottostanti il loro status sociale, “ragioni” che per essere vantate devono essere codificate in norme, e quindi avendo un forte interesse a mantenere, rafforzare e accrescere la loro posizione sociale inevitabilmente sono maggiormente portati a controllare i processi politico decisionali e quindi ad interessarsi di politica. L’interesse materiale e l’esposizione continua ad informazioni politiche motiva prevalentemente questi soggetti a sviluppare una maggiore sensibilità, appunto, politica.
I ceti medio bassi viceversa essendo più soggetti alle avversità della vita, dovute alla marginalità socio economica, tenderebbero all’autoesclusione, alla rassegnazione, alla depressione, al servilismo e all’opportunismo, che in Italia ha preso anche il nome di “familismo amorale”[2], e quindi ad un atteggiamento di indifferenza, finzione, rifiuto se non di vero e proprio odio nei confronti della politica.
Se notate c’è già molta materia di analisi per uno psicologo politico. Ma torniamo al punto focale.
L’animalità politica
Essendo tutti “animali politici”, in quanto la politica è una dimensione naturale dell’essere umano, perché solo una minoranza, come sopradetto, si attiva politicamente?
Compito dello psicologo è scavare nel profondo dell’io, oltre la dimensione condizionante e spesso coercitiva dell’esistenza, il. c.d. principio di realtà, per capire perché non tutti re-agiscono ai condizionamenti, alle ingiustizie e alle sopraffazioni allo stesso modo.
Innanzitutto cerchiamo di capire se veramente la celebre affermazione di Aristotele ha avuto una conferma del dibattito psicologico.
Se il fare politica è qualcosa di innato nell’essere umano, non ha senso parlare di decisione dell’individuo alla partecipazione, perché la nostra stessa condizione umana ci coinvolge eticamente. Andrei oltre, dicendo che esiste negli esseri umani un desiderio innato di cambiare la realtà sociale e politica. La questione si struttura più o meno così: le istituzioni sociali e politiche costituiscono una forma di realtà; sappiamo che i desideri non possono essere pienamente realizzati nella realtà, perciò le istituzioni sociali e politiche non sono esclusivamente costituite secondo i nostri desideri. Ne consegue che il rapporto tra desiderio e istituzioni sociali e politiche esistenti è più probabilmente un rapporto di inimicizia. Questa dissonanza viene espressa nei ricorrenti tentativi dell’umanità di cambiare le sue istituzioni sociali e politiche.[3]
Senza scomodare i padri della scienza psicologica (in primis Freud, Jung e Adler) tra i contemporanei sicuramente è Andrew Samuels[4], noto psicologo junghiano, ad aver dimostrato come la politica sia parte costitutiva della psiche individuale. Se l’uomo è un animale politico in quanto portato per natura a unirsi ai propri simili per formare comunità organizzate, come affermato dal filosofo di Stagira, Samuels va oltre sostenendo che vi è una tendenza naturale nell’uomo ad intervenire attivamente nel processo politico per: “un desiderio innato di cambiare la realtà sociale e politica.”
Quindi c’è un doppio lavoro di comprensione psicologica che deve indagare i desiderata (come si desidera vivere), il grado di tolleranza allo status quo (quanto è tollerabile come vivo) e di predisposizione all’azione (quanto sono disposto a rischiare per cambiare), il tutto senza trascurare la comprensione sociologica e politologica del contesto politico sociale in cui si è immersi, il vero lavoro pedagogico, con le sue strutture sociali sovraordinate (come ci si è organizzati storicamente e perché) e anche qui con tutto il corollario emotivo di accettazione e adesione o rifiuto e contrapposizione a queste strutture politiche sociali storicamente date.
L’analisi psicopolitica
Se la politica è una condizione naturale dell’essere umano giocoforza ognuno dovrebbe dare il proprio contributo alla conduzione politica della propria comunità. Se è soddisfatto della conduzione si lascia condurre, se insoddisfatto cerca di cambiare direzione mettendosi alla guida o supportando altri guidatori. Allora come si spiega la condotta di chi insoddisfatto non solo non cerca di promuovere nessun cambiamento ma si isola criticando qualsiasi proposta di cambiamento?
Cerchiamo di capirlo usando le parole di Samuels:
L’individuo si sviluppa sul terreno dei rapporti sociali e politici, e pertanto esiste un livello politico dell’inconscio. Una conseguenza dell’interiorizzazione dei fattori sociali e politici provenienti dall’ambiente è che la piena espressione del potenziale politico di un individuo può essere repressa al punto da tarpare e distorcere il suo contributo al processo politico. È qui evidente la somiglianza con ciò che l’interiorizzazione delle proibizioni morali dei genitori e della società compie rispetto alle pulsioni innate, quali la sessualità o l’aggressività.[5]
Qui entriamo nel cuore del nostro ragionamento. Andrew Samuels non solo dimostra l’intreccio tra dimensione politica e dimensione psichica, tra contesto sociopolitico, in cui si è totalitariamente immersi, e quello privato/familiare, ma sostiene che vi è un potenziale politico che viene represso dall’interiorizzazione di proibizioni morali che inibiscono politicamente l’individuo.
L’individuazione politica del se
Si può dire che un individuo soffre di repressione del potenziale politico quando non riesce a far fronte a un tema politico che consciamente o inconsciamente lo sta tormentando. La mia esperienza clinica è che le persone sono già molto più coinvolte politicamente di quanto loro stesse non credano.[6]
Le persone sono già molto più coinvolte politicamente di quanto loro stesse sono disposte ad ammettere. Quindi il primo fondamentale passo per superare queste proibizioni interiorizzate è favorire il coinvolgimento politico svelando:
le tendenze politiche che un individuo ha “ereditato” dal proprio retroterra familiare, di classe, etnico, religioso e nazionale, senza dimenticare le influenze accidentali, costituzionali, tipologiche, quelle legate al destino e quelle inesplicabili: l’elemento non-razionale.[7]
Quanto di quello che sentiamo e proviamo in termini di sensazioni/emozioni è frutto di condizionamenti sociali? Quanto di ciò che immaginiamo, fantastichiamo e desideriamo è frutto della nostra appartenenza a determinati gruppi sociali? Quanto della nostra cultura intesa come concezione del possibile è frutto di una visione della società imposta da gruppi dominanti? Questa dimensione del possibile quanto è politicamente orientata ovvero imposta dai ceti dominanti che su questa forgiano il loro status? E come tutto questo influisce nel nostro inconscio e quindi nel nostro immaginario?
Penso che molti converranno che il materiale del paziente analitico non può rimanere collegato soltanto alla sua situazione personale o all’elaborazione di fantasie innate, basate sull’istinto. Vanno fatti dei collegamenti con la cultura del paziente, con le sue tradizioni, la sua storia e con le sue origini sociali, razziali, etniche, religiose e nazionali. Ma come si può far questo e quali cambiamenti di teoria e pratica saranno necessari? Cosa accade se includiamo il fattore politico nel nostro racconto dello sviluppo psicologico della persona?[8]
La necessità di portare alla coscienza tale “collegamento”, anche nel trattamento clinico/terapeutico, spinge Samuels a chiedere agli analisti del profondo di non cadere nella “depoliticizzazione” della propria attività in quanto la repressione psichica del paziente è anche conseguenze della sua repressione politica:
Il singolo caso, o anche sintomo, contiene una versione microscopica della cultura, compresi i suoi rapporti di potere. La parte più piccola (sintomo) contiene l’intero più grande (politica).[9]
L’individuo represso è un individuo scisso, incompleto della sua parte pubblica, l’opposto di un individuo equilibrato indirizzato a realizzare compiutamente se stesso ovvero le proprie aspirazioni e potenzialità. Essendo la politica condizione naturale dell’essere umano un individuo represso è un individuo idiota nel senso greco di idiotes ovvero uomo chiuso in se stesso, scisso della sua parte pubblica, inadeguato ed incompetente della vita appunto perché mancante di una dimensione pubblica.
Compito dell’analista politico, usando l’espressione di Samuels, o del formatore politico, come preferisco io, è quello di:
collegare la frattura tra ciò che effettivamente è individuale, privato, soggettivo e ciò che effettivamente è collettivo, sociale, politico.[10]
Come questo collegamento è possibile?
L’analista può, in certe circostanze, invertire completamente i poli di ciò che normalmente fa, e lavorare anche per distanziare il paziente dalle emozioni generate dalla sua situazione personale. In un certo senso il paziente non deve identificarsi con se stesso come eroe, né essere autoempatico, né tendere a raggiungere l’introspezione o l’autocomprensione, ma cercare di localizzare ciò che è pubblico nei suoi conflitti privati, nelle sue ansie, nei suoi problemi relazionali.[11]
Occorre quindi svolgere un lavoro di individuazione politica del se prodromico alla ricongiunzione con la dimensione comunitaria. Occorre quindi lavorare per ricomporre l’unità ovvero superare la scissione pubblico/privato del se.
La scissione schizoide
Perché il disimpegno politico è ormai un fenomeno di massa? Siamo tutti schizoidi?
Come è noto lo schizoide tende ad osservare la vita più che a viverla, preferisce la sicurezza e la solitudine alla minaccia delle relazioni. Per tale ragione non ha interessi, manifesta indifferenza emozionale ed espressiva preferendo l’anonimato e la solitudine. Preferisce rifugiarsi nel suo mondo virtuale anziché vivere il reale. Un quadro antitetico alla nostra animalità politica.
Siamo quindi tutti affetti da questo disturbo?
Per gli analisti del profondo l’origine della scissione pubblico/privato è ravvisabile nella tendenza della cultura Occidentale a ragionare per opposti: mente/corpo, corpo/anima, bene/male, maschile/femminile, positivo/negativo, bianco/nero, ecc.
In realtà è una tendenza universale, diffusa in tutte le culture, in quanto dettata dalla necessità di delimitare dei confini netti tra ciò che siamo e ciò che non siamo. E’ una semplificazione euristica per disporre di un’altra dicotomia noi/loro funzionale alla costruzione identitaria utile a mantenere coeso un gruppo a danno di altri gruppi e a favorire processi di distanziamento sociale.
Questa scissione noi/loro, amico/nemico secondo la nota dicotomia schmittiana[12], porta quel senso di comunità, coesione e purezza di cui non possiamo fare a meno. Diventa patologica quando la si radicalizza nel “noi siamo i buoni, i rappresentanti del bene, loro sono i cattivi, i rappresentanti del male”. C’è anche la variante opposta del “loro sono buoni, i rappresentanti del bene, e noi i cattivi, i rappresentanti del male”. Se noi siamo i puri e i giusti gli altri sono gli impuri e gli ingiusti viceversa se loro sono i puri e giusti e noi gli impuri e gli ingiusti loro sono da ammirare/glorificare noi da compiangere/convertire/eliminare.
Sia nella prima che nella seconda variante è attivo un meccanismo inconscio di proiezione sull’altro della nostra parte cattiva o parte buona funzionale a soddisfare quel bisogno innato di comunità, coesione/fusione e purezza presente in ognuno di noi. Un meccanismo pericoloso perché è alla base di tutti i processi di de-umanizzazione e sterminio visti nel corso della storia e nei conflitti odierni.
La repressione delle potenzialità politiche
Come si traduce questa scissione nella repressione delle potenzialità politiche dell’individuo?
Nel primo caso (noi il bene/loro il male) tale scissione porta all’euristica della “svalutazione della politica” che si caratterizza nel valorizzare il disimpegno e svalorizzare l’impegno. Tipico di questa euristica è il pensiero che è giusto non impegnarsi perché tanto fare politica è inutile perché ci sono i “poteri forti” che condizionano i processi politico decisionali. Il potere reale non è nelle istituzioni politiche (svalutazione della politica) ma al suo esterno ovvero nel potere economico finanziario o religioso o massonico oppure nelle mani di una superpotenza straniera o di una oligarchia occulta privata (es. Gruppo Bilderberg).
Nel secondo caso (noi il male/loro il bene) tale scissione porta all’euristica della “onnipotenza della politica” che si caratterizza nel svalorizzare noi stessi e valorizzare eccessivamente la politica dotandola di superpoteri. Tipica di questa euristica è il pensiero che impegnarsi è inutile perché non contiamo nulla in quanto i politici possono tutto (onnipotenza della politica) e potrebbero cambiare in meglio il Paese se veramente lo volessero ma fondamentalmente fanno politica per tornaconto personale.
Come vedete queste sono euristiche ovvero scorciatoie mentali finalizzate a razionalizzare la scissione schizoide utile a non farsi sopraffare dall’angoscia e dai sensi di colpa.
C’è quindi molto da lavorare per rimarginare la scissione pubblico/privato, un compito fondamentale per formare personalità democratiche ovvero personalità capaci di fare luce alla propria ombra perché, come un qualsiasi psicoanalista può dire, non esiste un bene e un male scissi fuori o dentro di noi perché siamo contemporaneamente luce e ombra[13], bene e male, e dobbiamo apprendere ad individuarli e questo a maggior ragione oggi che stiamo andando incontro a periodi bui.
Note
[1] Aristotele, Politica, Edizioni Laterza, 1993.
[2] Edward C. Banfield, Le basi morali di una società arretrata, Il Mulino, 2006.
[3] Andrew Samuels, La Psiche Politica, Moretti e Vitali, 1999, pag. 105.
[4] Andrew Samuels, junghiano di fama internazionale, è membro della Società di Psicologia Analitica di Londra. Per maggiori informazioni: https://en.wikipedia.org/wiki/Andrew_Samuels
[5] Andrew Samuels, La Psiche Politica, Moretti e Vitali, 1999, pag. 102-103.
[6] Idem, pag. 106.
[7] Idem, pag. 99.
[8] Idem, pag. 99.
[9] Idem, pag. 121.
[10] Idem, pag. 112.
[11] Idem, pag.116.
[12] Carl Schmitt, Le categorie del «politico». Saggi di teoria politica, il Mulino, 2013.
[13] Sul concetto di luce e ombra si fa riferimento a Carl Gustav Jung, Psicologia dell’inconscio, Bollati Boringhieri, 2012.