
Il ruolo dello psicologo nella terapia del malato cronico
Considerazioni sul mestiere dello psicologo
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Viviamo ancora in un mondo che si definisce civile eppure non valuta adeguatamente l’importanza dei nostri pensieri, delle nostre stesse responsabilità e delle nostre reazioni nei confronti di qualunque malattia. Purtroppo, per quanto riguarda la terapia, non si è ancora appreso che un percorso psicologico in ogni malattia è fondamentale, e lo psicologo viene ancora troppo spesso considerato il “medico dei matti” o qualcuno che si occupa della “mente” (con errato concetto che lo psicologo si occupa esclusivamente di psicoterapia) e non del “corpo”.
“Ho il cancro! Ho il diabete! Ho il Parkinson! Ho dolore cronico! Sono malattie fisiche, cosa c’entra lo psicologo?”. Nulla di più sbagliato, tanto più quanto una qualunque malattia è cronica.
Vediamo quindi di mostrare quanto questo atteggiamento sia una una sbagliata concezione alla luce di scoperte recenti (o meglio, di cose che si sanno da millenni) relative alla psicosomatica, alla psiconeuroendocrinoimmunologia, all’epigenetica, e a quant’altro serva a comprendere come mente e corpo siano due facce della stessa medaglia, e che lavorando su uno si influisca necessariamente sull’altro.
Cause di malattia
Taoisticamente parlando, molte malattie possiamo certamente “provocarle” noi stessi consciamente (fumo 20 sigarette al giorno e so che mi faranno venire il cancro), oppure inconsciamente (ad esempio mi metto “inconsciamente” in situazioni che mi provocheranno danno se non la morte).
Come pazienti (quando ormai ci siamo ammalati e il danno è fatto) possiamo semplicemente e dobbiamo capire che abbiamo bisogno di un percorso psicologico e lavorare su di noi quando non riusciamo più a venirne fuori e i costi soprattutto umani sono superiori ai benefici delle terapie mediche che stiamo facendo.
Come potremmo quindi affrontare al meglio una qualunque malattia cronica? Perchè lo psicologo?
Alcuni spunti sul significato di malattia
La psicologia e la psicosomatica ci insegnano certamente alcuni punti da tenere sempre in considerazione quando prendiamo in carico un malato cronico.
Ogni paziente ha la sua storia, le sue motivazioni, i suoi vissuti, subisce stress e situazioni diverse da quelle di chiunque altro, e soprattutto le interpreta e reagisce in modo diverso da chiunque altro.
Una delle cose che noi psicologi possiamo certamente cercare di capire, quando questo possa avere un significato utile, è il senso proprio della sua malattia. Possiamo trovare un motivo per il quale quella persona si è ammalata proprio di quella cosa e proprio in quel momento della sua vita? Quella malattia può simbolizzare qualcosa? Può avere un significato per il malato stesso? Ma anche (contrariamente ad un senso apparentemente logico) “il paziente ne trae vantaggi”?
L’esperienza ci insegna che ognuno potrebbe certamente ammalarsi per analogia o simbolismo, rappresentando qualcosa nella vita (es. ho l’asma perché “non respiro o qualcuno mi soffoca”, oppure mi sono rotto una gamba perché “non riesco ad andare avanti nella vita”), oppure ancora abbiamo imparato che dobbiamo studiare che cosa quella malattia fa fare o non permette di fare al paziente.
Mentre scrivo mi viene in mente una paziente ad esempio con un mal di schiena cronico che la obbligava all’immobilità. Gli esami erano tutti negativi, eppure questa povera donna non riusciva ad alzarsi dal letto. Nella sua anamnesi scoprimmo che aveva sette figli, e che ogni volta che si poteva il marito la faceva… procreare. Ecco che, imparando a dire qualche no al marito e non sentendosi più obbligata a fare ulteriori figli, il mal di schiena regredì e lei tornò a camminare.
Prendiamo però esempi più comuni o se vogliamo quotidiani: per qualcuno un attacco di panico ha l’effetto di “chiamare aiuto”, per altri invece serve a “isolarsi”. Lo stesso sintomo quindi può avere funzionalità diverse in base alla personalità del paziente, e il disturbo quindi va trattato in maniera diversa.
Anche quando molto spesso una causa di malattia non può essere definita ed essere eliminata (perchè esiste da anni e tornare indietro a “capire” cosa sia successo e “ripararlo” non di rado è praticamente impossibile), è compito e capacità nostra appunto analizzare ed eventualmente “scoprire” quindi simbolismi e funzionalità di una malattia, perchè appunto proprio lì potrebbero nascondersi indizi utili per la risoluzione.
Ciò detto, posto che in psicologia la causa e l’effetto sono spesso invertibili (es. “mi sono rotto la gamba e purtroppo non posso andare a lavorare” ma può anche essere vero che “mi sono rotto la gamba – inconsciamente – proprio per non andare a lavorare”) e che quando si ha una malattia cronica il danno è già stato fatto e molte volte ampiamente fisicamente esteso e non di rado irreversibile (es. una invalidità, un cancro avanzato etc.), allora dobbiamo essere coscienti che se non possiamo “guarire” (che è la prima cosa a cui la medicina stessa dovrebbe SEMPRE puntare, altrimenti la ricerca scientifica stessa non esisterebbe) possiamo però “curare”, cioè “prenderci cura di”, e fare tutto ciò che possiamo per il bene del paziente che ci chiede aiuto.
Attenzione però: esistono anche pazienti che “non vogliono” né guarire né essere curati, per quel concetto che Freud descrisse come “vantaggio secondario della malattia”, e che spesso, più di quanto non si creda, impedisce un buon rapporto terapeutico con il malato. Tutti noi che facciamo questo lavoro vediamo infatti quotidianamente pazienti con “resistenze” particolari per cui essi stessi talvolta prima chiedono aiuto poi interrompono il trattamento, magari proprio quando si arriva al nocciolo del problema. Per incapacità di gestione delle problematiche che emergono? Per fattori inconsci? Ognuno è diverso da tutti gli altri. Fatto sta che, per quanto riguarda l’argomento del nostro articolo, cioè malattia fisica o dolore cronico, un paziente messo davanti alle sue “responsabilità” troppo spesso per tutta una serie di motivi che non riesce a gestire o a sostenere (né talvolta purtroppo a “comprendere”), rifugge purtroppo di nuovo nel circuito “medico” alla ricerca di ulteriori farmaci o terapie che in generale non esistono, perpetuando il proprio dolore e la propria sofferenza. Torna sempre il concetto “io ho solo bisogno delle medicine giuste”.
Il paziente nella sua globalità
Bene. Cosa può fare lo psicologo nel concreto quindi per un malato cronico? Molto più di quanto ci si aspetti. Il percorso psicologico dovrebbe essere primario ed assolutamente necessario nella presa in carico del paziente cronico, tanto più quanto esso diventa farmacoresistente oppure “difficile”, se non quando “scomodo”.
Vediamo di dare una traccia per cercare di spiegare alcuni concetti chiave.
Per semplicità, prendiamo il paradigma di Lazarus, il cosiddetto BASIC ID. In questo acronimo, B sta per “Behaviour”, (cioè comportamenti e atteggiamenti), A sta per “Affections” (cioè emozioni e sentimenti), S per “Sensations” (sensazioni e sintomi), I per “Imaginations” (immagini e sogni), C per “Cognitions” (idee, pensieri e opinioni), I per “Interpersonal relations” (relazioni interpersonali) e D per “Drugs” (medicine, terapie fisiche etc.).
L’essere umano è fondamentalmente composto da tutte queste “parti” che interagiscono tra di loro. La “medicina”, le pastiglie, le terapie “mediche” sono soltanto una delle sette parti. E le altre? Siamo entità in vivo o in vitro? Siamo forse pezzi da aggiustare? Abbiamo bisogno solo di “farmaci” quando ci ammaliamo?
No, abbiamo bisogno di essere considerati esseri umani e di lavorare su tutte le nostre caratteristiche umane. Lo psicologo specializzato lavora quindi con competenze mirate su tutti questi aspetti della nostra persona, aiutando il paziente a guarire (ricordiamo sempre che la priorità dovrebbe sempre essere la guarigione e che la letteratura scientifica comprende non pochi casi di pazienti guariti da patologie ritenute inguaribili e anzi denominati “miracoli” – quando invece potremmo ritenere il tutto semplicemente frutto magari di un approccio scientifico diverso), oppure a gestire la malattia in tutti gli aspetti possibili. Tutto questo per molti purtroppo non è ancora una cosa logica.
Lavorando sui nostri pensieri, sentimenti, atteggiamenti, abitudini, percezione del dolore e della malattia stessa, dei rapporti con la famiglia, sulle proprie aspettative eccetera, moltiplichiamo di molto le nostre probabilità di guarigione appunto (talvolta dicevamo ritenuta “impossibile”) e comunque aumentiamo di molto le nostre possibilità di gestione della patologia, sviluppando le capacità di reazione o di resistenza dell’organismo stesso.
Ognuna delle opzioni citate “lavora” sui nostri aspetti psicofisiologici (esempio aumentando la produzione di neurotrasmettitori, di endorfine, e di tutta una serie di sostenze che ancora ci sfuggono ma che nella realtà hanno effetti a volte migliori dei farmaci) portando effetti sulla salute “fisica”. Ognuna delle opzioni può avere effetti “per se”, oppure combinate influenzando a sua volta le altre e globalmente la malattia. I pensieri ad esempio influiscono sulle emozioni e sugli atteggiamenti, le immagini sulle emozioni, i rapporti interpersonali sull’umore, il rilassamento o la meditazione sul dolore stesso, eccetera, e tutte quante le caratteristiche insieme, lavorando sulla “psiche”, vanno inevitabilmente ad influire sulla parte fisiologica, funzionale ed organica dell’essere umano. Le scoperte della psicofisiologia, della psicosomatica, della PNEI e dell’epigenetica, dicevamo, sono sempre in continuo progresso.
Lo psicologo specializzato può conoscere oggi tecniche mirate per il lavoro sul malato cronico fino a pochi anni fa inimmaginabili. Con un percorso psicologico adeguato possiamo quindi andare a influire sui nostri sistemi neurologico, endocrino, immunitario, genetico, e in realtà su un sacco di fattori che tuttora non conosciamo appieno se non visibili poi dagli effetti “misteriosamente” (eppure, ripetiamo che non ci rendiamo ancora conto che stiamo lavorando ad un livello scientifico) ottenuti sui pazienti stessi.
In collaborazione con il medico quindi, alla luce delle moderne conoscenze scientifiche che evolvono costantemente, possiamo affermare con certezza oggi che il percorso psicologico è fondamentale, necessario, indispensabile. Eppure pochi ancora lo capiscono ritenendo, ripetiamo, lo psicologo una persona a cui “raccontare i fatti propri”, un professionista “da cui vanno solo i matti”, una persona da cui “cosa ci vado a fare se ci parlo soltanto, mica mi dà le medicine”.
Alcuni concetti per terminare
Chi scrive ha lavorato per molti anni con pazienti cronici e con patologie praticamente di ogni genere.
Ho anche insegnato tecniche di meditazione in Università di Medicina per tanti anni, codificandone due specifiche per l’aspetto medico, la Analogic Meditation e la Harmony Meditation, rivelatesi utilissime sia per la terapia di malattie croniche in aiuto delle consuete terapie mediche e farmacologiche oppure da sole (nel caso di pazienti farmacoresistenti appunto o di pazienti giudicati “incurabili”), che per l’attuazione di piccoli interventi o esami invasivi.
Quanti sanno che le tecniche di meditazione sono tra gli strumenti più potenti che abbiamo nella gestione della nostra salute? La meditazione, quando correttamente praticata, ha molti effetti sull’organismo, eppure pochi ne conoscono le potenzialità (ci scappa anche questo pensiero: chi sa che la meditazione nella terapia del dolore può avere effetti più potenti della morfina? E ancora ad esempio, chi sa che c’è una discreta letteratura sull’utilizzo delle tecniche di meditazione come potenziale approccio nella regressione tumorale? Praticamente nessuno, vero?).
Altri esempi ancora li facciamo sempre sui pazienti fibromialgici guariti (quando correttamente diagnosticati), che avendo riconosciuto in sé l’eziogenesi psicotraumatica della propria malattia e l’averla incanalata in “dolore fisico”, hanno abbandonato l’oralità della medicina ed affrontato i propri “mostri”, superando mille difficoltà ed uscendo dal tunnel della propria sofferenza. Anche qui, la consistenza di risultati ottenuti conferma la bontà e la funzionalità della teoria retrostante.
Questa è quindi la pratica quotidiana di chi si occupa in modo mirato di psicosomatica: non mollare mai un paziente, prendendosene cura in ogni suo aspetto per tutto ciò che è possibile, spiegandogli come utilizzare atteggiamenti e comportamenti, pensieri e immagini massimamente funzionali per il suo caso.
Mille e mille storie che vediamo ogni giorno si potrebbero raccontare, e un po’ alla volta qualcuna la racconteremo.
Dott. Alessandro Mahony
Psicologo
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