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Fiducia nello sconosciuto

L’arte di continuare a stupirsi

Image by Anthony Tran on Pexels.com


Gli ebrei sostengono di non sapere quel che c’è dopo la nostra morte. Però potrebbero anche dirlo diversamente: dopo la nostra morte, c’è quel che non sappiamo – D. Horvilleur

Sono tornato di nuovo in India, ancora Varanasi, la città, sul fiume Gange, dove va in scena il film della vita e della morte. Milioni di persone colorate, urlanti, confusionarie, si sono riversate in questa città dopo aver partecipato al Kumba Mela, festa induista che accade ogni 12 anni. E’ indescrivibile il numero, la quantità di esseri umani che attraversano questi stretti vicoli per poter raggiungere i gates ed immergersi nel Gange. Donne, bambini, uomini, vecchi, giovani, si diversificano per le assurde casacche fatte di cappellini di lana colorati, piumini, maglioni arancio pesante, che vengono indossati come reliquie sacre su piedi scalzi, perché nessuna scarpa può calpestare gli infiniti templi che sono sorti sulle rive di questo maestoso fiume. La loro fede è inattaccabile come l’uso dei cellulari, nessuno di loro per un solo istante è immune da fare foto, chiamate, video, squilli che rimbalzano e si amplificano attraverso la folla immensa.

In un locale dove talvolta faccio colazione, due italiani mi rigettano nella dimensione occidentale, la velocità del loro parlare, i loro giudizi, gli argomenti, le loro emozioni di sdegno e rabbia verso tutto e tutti, quel dialogare senza nessun senso mi hanno portato a riflettere del perché, di alcuni  motivi di questo viaggio.


Rallentare per allenare uno spazio dove continuare a scoprire chi sono io

Nello studio di terapia arrivano persone confuse, doloranti, perse, arrabbiate, irrigidite nei loro sistemi di pensiero, sbattuti come barche di carta dalle ondi forti della vita, si ritrovano con un modo di stare nella propria esistenza  che ha poca bellezza e armonia. Se chiedi se mai si sarebbero aspettate tutto ciò, di solito la risposta è neanche nei peggiori incubi.

Li comprendo, capisco il tormento che portano, hanno investito tutto o quasi sul contenitore, sull’apparire, sulle esterno del gioco, dimenticandosi del contenuto, dimenticandosi di interrogarsi se quello che stavano vivendo avesse realmente un senso. Eppure da tempo ho compreso che ognuno di noi prova sempre a fare del proprio meglio, mettendoci l’anima, per arrivare a scoprire, spesso attraverso una profonda difficoltà, che conosciamo poco di noi stessi, di chi siamo. La crisi ci guida ad uscire fuori da quel conosciuto che non funziona più, e scoprire altre possibilità, o visioni per affrontare la vita.

Una coppia entra nel mio studio, Angela e Vittorio, hanno due figli, la crisi cominciata anni prima era sempre stata arginata con nuove imprese, obbiettivi, figli, trasferimenti, cambio di regione, cambio di lavoro. Stavolta Vittorio non ha intenzione di seguire Angela, al suo ennesimo desiderio di cambiare ha detto di no. E da quel momento la guerra che era sempre stata silente, fredda è scoppiata improvvisa, violenta, inevitabilmente anche dentro la stanza di terapia. Due ospiti separati nella stessa casa.

Diecimila fiori in primavera, la luna in autunno, una fresca brezza in estate, la neve in inverno: se la tua mente non è annebbiata da cose superflue, questa è la stagione migliore della tua vita – Wu-men

C’è un filo sottile che si dipana lungo i sentieri del destino di una persona, che fa sì che si abbiano alcuni  incontri, ed se ne evitino altri, che fa attraversare alcune esperienze, mentre altre non accadranno mai, che ci fa nascere in un certo periodo storico e non in un altro.

In Occidente abbiamo puntato ogni attenzione, aspettativa, speranza, su una personalità forte, un io che volge ad un obbiettivo, una modalità di vivere il tempo che io definisco bulimica. Tutto subito ed il più presto possibile. Così per questo dictat in cambio viviamo e subiamo una pressione incredibile, emotiva, fisica, psichica, che ci spinge a passare da una esperienza all’altra, da un progetto all’altro per mantenere una libertà, un’autonomia, sempre minacciata, sempre claudicante. Abbiamo perso il senso della vita, del ritmo, della bellezza, del gustarsi momento per momento, abbiamo dimenticato la capacità di essere presenti, dove l’errore non è una tragedia bensì lo scalino dove appoggiare il prossimo passo.

Nella nostra società è impossibile permettersi la fragilità, la vulnerabilità, non avremmo posto dove ripararci.

Eppure la sacralità della vita sta proprio nella danza degli opposti, la notte che comincia al crepuscolo si tuffa nell’alba per vedere nascere il giorno, la nascita ha nella morte non la sua fine bensì la sua evoluzione, non ci sarebbe esistenza altrimenti, il nostro io appartiene all’albero della storia della nostra famiglia che ha radici immense e profonde. Non esiterebbe io senza noi. La tristezza, il dolore non sono nemici da combattere bensì’ alleati da accogliere per imparare ad espandere i nostri rami, la nostra forza. La bellezza è un atto poetico che include gli opposti, il pieno e vuoto, luci ed ombre, amore e delusione, ed è dal gioco degli opposti che impariamo a penetrare il mistero della vita.

Ecco come il sacro si mostra, quando l’individuo comincia a riconoscere la sua appartenenza a qualcosa di più grande che si diffonde attraverso l’esistere, nella curiosità di rimanere stupiti da  questa esistenza, imparando a guardare con meraviglia dentro di noi ed al mondo che ci circonda, a farci bagnare dalla bellezza insita nella vita .


Niente è stabilito a priori e niente accade a caso

Liliana arriva in studio, la sua storia ha dell’incredibile sta con un uomo da 12 anni, oggi ne ha  35, un uomo violento, che la costringe ad una vita che non le piace. Svolge un lavoro dove ancora una volta non è rispettata, anzi potremmo dire proprio maltrattata. Da tempo immemorabile sa che se ne deve andare ma non riesce a muoversi. Ha imparato ad anestetizzarsi. Ed è su questa affermazione che inizieremo a lavorare e scoprire come la sua anestesia sia cominciata tanti anni prima, quando appena nata è stata ospedalizzata per due anni. Il dolore, la paura, erano entrate nel corpo costruendo una struttura fisico psichica che aveva imparato a non sentire, a togliere importanza a certi segnali distogliendo lo sguardo e metterlo nell’io continuo malgrado tutto a muovermi.

L’uomo nasce come seme, può diventare un albero oppure no. Dipende tutto da te, da cosa fai di te stesso, crescere o no dipende da te. Osho

India, Pushkar, città che si affaccia su un lago sacro, fonte di mille contraddizioni. Una folla che si bagna su acque limacciose, canti devozionali, tra mucche, cani e scimmie dispettose, si cammina a piedi scalzi sulle sponde del lago, in segno di umiltà, in uno slalom infinito e perdente dentro ad una pattumiera a cielo aperto.

Ci sono tante vie, tecniche, maestri  per arrivare a scoprire chi siamo. Io ho scoperto la mia tanti anni fa, Osho e il Buddha sono arrivati quasi contemporaneamente. Ho impiegato un bel po’ di tempo per riconoscerli e lasciarmi guidare, le resistenze sono proprie dell’essere umano, l’io vuole rassicurazioni e assicurazioni. Quello che ho imparato è che il tempo, l’età’ non hanno una grande importanza, l’importante è rischiare di fare il primo passo, dentro se stessi. Nel prendersi la responsabilità di quello che stiamo vivendo, interrogandoci se siamo soddisfatti, felici, scopriamo come ascoltare anche le parti che ci creano fastidio, e le domande che ci facciamo e che ci guidano verso altre possibilità cambiano, diventando più intime, più gentili, più aperte. E poi la vita risponde, risponde sempre.


Stefano Cotugno Autore presso La Mente Pensante Magazine
Dott. Stefano Cotugno
Psicoterapeuta Sistemico Relazionale
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