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La Verità tra filosofia e psicologia

Una domanda millenaria

Image by Taras Chernus on Unsplash.com


Che cos’è la verità? È una delle domande fondamentali della filosofia occidentale, già presente nei dialoghi socratici, nelle opere di Platone e Aristotele, e poi nell’intera storia del pensiero occidentale.

Ma la verità non è solo un concetto astratto o logico: è anche un’esperienza soggettiva e profonda, capace di toccare l’identità dell’individuo e la sua relazione con il mondo.

Quando diciamo “voglio sapere la verità”, ci riferiamo spesso non solo a fatti, ma a qualcosa che riguarda noi stessi, la nostra integrità e la nostra autenticità.

Da un punto di vista filosofico, la verità è stata variamente definita come corrispondenza ai fatti (Aristotele), coerenza interna di un sistema (Leibniz, Spinoza), o come evento di disvelamento (Heidegger).

In ambito psicologico, invece, la verità assume una dimensione più personale e relazionale: non si tratta solo di “dire” il vero, ma di vivere il vero, di accettare e integrare ciò che si scopre di sé.

Nel Novecento, filosofi come Michel Foucault hanno evidenziato il legame tra verità e potere, sottolineando come ogni società produca i propri regimi di verità: ciò che è considerato vero in un contesto storico-culturale può non esserlo in un altro.

Questo ci invita a riflettere sul fatto che la verità non è mai neutra, ma è sempre implicata in dinamiche simboliche, affettive, morali.

Dall’altro lato, Carl Gustav Jung parlava della verità come qualcosa che emerge nel processo di individuazione, come rivelazione dell’unità tra coscienza e inconscio. Per lui, la verità non è imposta dall’esterno, ma è un’esperienza interiore, che si rivela man mano che la persona integra le sue ombre, ascolta i suoi simboli e riconosce la totalità del Sé.


La verità come processo: consapevolezza, identità, relazione

Nella prospettiva psico-filosofica, la verità non è un dato statico, bensì un processo dinamico. Ogni essere umano, nel suo sviluppo, affronta momenti in cui deve scegliere se aderire a una “verità esterna” (implicita nei valori familiari, sociali, religiosi) o cercare la propria verità interiore, più profonda, a volte più dolorosa.

La psicologia si pone spesso come un cammino verso la verità personale: è un luogo in cui il soggetto può decostruire narrazioni imposte, affrontare menzogne funzionali o difensive, e avvicinarsi a una comprensione più autentica di sé.

La verità psicologica, in questo senso, non coincide con l’oggettività: si avvicina piuttosto a quella coerenza interna tra pensieri, emozioni, corpo e azioni, che rende l’individuo più integro e meno frammentato.

Come ci ricorda Roberto Assagioli, padre della psicosintesi, la verità è strettamente connessa alla volontà e alla coscienza sintetica: si manifesta non come dogma, ma come sintesi personale tra elementi razionali, affettivi e spirituali. La persona non si limita a conoscere la verità, ma la realizza nel proprio modo di essere nel mondo.

In questo senso, il concetto di “cura di sé” di Foucault si incrocia con la verità: conoscersi è un atto etico, non solo cognitivo. Non basta sapere ciò che si prova o si pensa: occorre assumersi la responsabilità di viverlo, incarnarlo, farne testimonianza.

Nelle relazioni, dire la verità non significa semplicemente “non mentire”: significa essere in contatto con ciò che si sente veramente, e avere il coraggio di comunicarlo, pur sapendo che ogni parola è sempre un’interpretazione parziale. La verità relazionale si costruisce nell’incontro, nel dialogo, nella possibilità di essere visti per ciò che si è.


Il paradosso creativo

Uno dei paradossi più affascinanti della verità riguarda il suo rapporto con la finzione.

Come può una bugia, un racconto inventato, un’opera d’arte, portare alla verità?

Pablo Picasso diceva che “l’arte è una bugia che ci permette di dire la verità”. In effetti, l’arte, la letteratura, il mito, non descrivono fatti, ma trasmettono significati, rivelano strutture profonde della psiche, rispecchiano conflitti e archetipi universali.

La verità, quindi, non si oppone necessariamente alla finzione.

Al contrario, molte verità psichiche si rivelano proprio grazie alla metafora, al sogno, al simbolo. Jung e Hillman ci hanno insegnato che il linguaggio dell’anima è immaginale, non letterale.

E in questa logica, anche la menzogna può avere una funzione trasformativa: può essere un modo per proteggere, per differire un trauma, o persino per rielaborare un dolore insostenibile.

D’altra parte, nella società contemporanea, dominata dai media digitali, si assiste a un’inflazione di pseudo-verità, opinioni camuffate da dati, e narrazioni che pretendono di spiegare tutto. In questo scenario, la verità rischia di diventare un’opinione tra le tante, e ciò rende ancora più urgente il bisogno di un ancoraggio interiore, di una verità personale capace di orientare la propria esistenza.

Tornare a una verità incarnata, quindi, non significa cercare certezze assolute, ma accettare la complessità, coltivare il dubbio fecondo, e riconoscere che ogni trasformazione autentica nasce da un incontro con qualcosa di vero: un’emozione, un dolore, una memoria, un’intuizione.

La verità dunque non è ciò che si possiede, ma ciò che si onora, che si cerca con sincerità, e che ci trasforma nel profondo.


Bibliografia

– Assagioli, R. (1973). Psicosintesi. Roma: Astrolabio.
– Jung, C. G. (1959). Ricordi, sogni, riflessioni. Milano: BUR.
– Foucault, M. (1988). Tecnologie del sé. Torino: Bollati Boringhieri.
– Hillman, J. (1975). Il codice dell’anima. Milano: Adelphi.
– Heidegger, M. (1927). Essere e tempo. Milano: Longanesi.


Dott.ssa Lorena Ruberi Autrice presso La Mente Pensante Magazine
Dott.ssa Lorena Ruberi
Psicologa e Counsellor Umanistica
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