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Come liberarsi dalla mania di controllo

Il piacere di arrendersi una volta al giorno


Fin da ragazzino sono stato ossessionato dall’idea di arrendermi.
Arrendermi non nel senso di “gettare la spugna” o di non affrontare gli ostacoli che mi si parano di fronte: parlo di un’idea completamente diversa.
Intendo dire arrendermi a qualcosa di bello, di profondo, possiamo dire di “istintivo” forse, che mi guidi nelle mie scelte e mi liberi, almeno temporaneamente, dalla spinta, spesso oppressiva, a controllarmi e a controllare.


La spinta al controllo nell’ambiente

Questa spinta al controllo, naturalmente, non è una cosa così strana e, in varie proporzioni, è condivisa da tutti gli esseri viventi.
Anche gli animali e le piante cercano di esercitare vari tipi di controllo sul mondo che hanno intorno, per sopravvivere o per dare soddisfazione ai propri bisogni e desideri.

Gli umani poi, specialmente chi come noi è inserito in un contesto sociale tecnologico ed avanzato, sembrano varcare sempre più e in ogni ambito i limiti che la natura impone, o quelli che imponeva fino a ieri.
Per noi la tendenza al controllo può tradursi così in un eccesso, che prende varie forme a seconda del contesto culturale e sociale e del retroterra personale.

Pensiamo, per fare qualche esempio, all’enorme controllo che le istituzioni religiose in ogni parte del mondo hanno esercitato per secoli, e tutt’ora spesso esercitano, sulla morale privata.
O allo smisurato controllo politico sulle azioni quotidiane dei singoli cittadini da parte dei regimi dittatoriali.

Oppure a un evidente sintomo materiale del controllo, ovvero il crescente aumento delle camere a circuito chiuso negli ultimi vent’anni, che ormai registrano costantemente il tempo e lo spazio di sempre più luoghi e angoli pubblici.
Insomma, quando il controllo va fuori controllo.

Sicuramente una certa dose di controllo è necessaria e probabilmente inevitabile in quasi tutti gli ambiti della vita, ma come stabilire il confine fra un controllo che funziona organicamente come contenimento e protezione (psicologico, sociale, politico) e un controllo che diventa oppressione?


La mania di controllo dentro di noi

Passando a un livello più intimo, non sentiamo forse tutti la presenza di qualcosa in noi che ci spinge a non lasciarci andare, a trattenere il respiro, a controllare le nostre reazioni anche quando forse non ce ne sarebbe bisogno?

È facile rendersene conto anche grazie all’espansione, negli ultimi decenni, di una sempre più vasta gamma di pratiche di rilassamento “ufficiali” nella nostra società, in cui sembriamo aver nettamente diviso in due il tempo del controllo e il tempo del rilassamento.

Da quelle che un tempo venivano considerate alternative, quali le discipline orientali come lo yoga e il Tai Chi, a quelle più tradizionali in Occidente, come i massaggi e le spa, per passare a situazioni più informali in cui il rilassamento ha più a che fare con lo “staccare la spina”, come gli aperitivi con gli amici e le serate davanti a Netflix.

Per quanto si tratti ovviamente di opzioni di qualità diversa, hanno acquisito per noi un’attrazione particolare proprio in quanto sentiamo la necessità di equilibrare quell’eccesso di controllo che sperimentiamo nel lavoro o nella vita sociale, con momenti in cui possiamo dire basta e abbandonarci, diventare un po’ passivi.


Il tempo quotidiano ci divide in due

Per me, che da sempre sento in modo intenso questa tensione interna fra controllo ed abbandono, è stato importante adottare delle strategie quotidiane in cui io possa ritrovare una sorta di equilibrio.

Ho sempre avuto difficoltà con la divisione degli ambiti della vita in compartimenti stagni.

Non ho mai creduto all’efficienza emotiva e spirituale del tempo quotidiano diviso in due parti:

  1. l’una, di solito identificata con il lavoro, in cui ci forziamo ad adempiere ai nostri doveri, stringendo i denti e accumulando tensione senza possibilità di sfogo;
  2. l’altra, completamente separata, in cui torniamo ad essere almeno un po’ in contatto con la nostra psiche e il nostro corpo (entrambi spesso esausti, ed esausti di essere ignorati) e cediamo a una passività esagerata per ritrovare un po’ delle energie che abbiamo consumato nella prima parte.

Questa dicotomia mi è spesso sembrata una delle parti più oscure della nostra società iper-produttiva.
Essa si insinua nel quotidiano di ognuno di noi e lo modifica nella sua struttura temporale.

Quasi senza accorgercene, compiamo sacrifici emotivi, psicologici e spirituali affinché ci rendiamo funzionali ai meccanismi di una società dai ritmi ancora più forsennati di quelli descritti nella caricatura ormai ultra-ottantenne dei Tempi Moderni di Charlie Chaplin.

Come reagire a questo stato di cose?

Come non sentirsi intrappolati in una dimensione temporale e psicologica che, salvo rare eccezioni, ci influenza tutti e sembra allontanarci dalle nostre esigenze emotive, psicologiche e spirituali?

Come trovare uno spazio interiore che permetta di integrare le parti bistrattate di noi stessi, quelle ignorate, quelle che avrebbero bisogno di essere ascoltate durante tutta la giornata, e non messe da parte continuamente con la scusa dei troppi impegni o della stanchezza?


Strategie per arrendersi alla fluidità della vita

Esistono infinite possibilità per portare un senso di pace, di apertura, di possibilità, di vitalità nel quotidiano, e possiamo dire che ognuno ha il potenziale di trovare quelle che meglio si adattino alla sua personalità e alle sue condizioni di vita.

La dimensione del tempo che si allarga liberandosi da strutture troppo rigide, dell’identità che entra in dialogo vitale con il mondo interiore o esterno, espandendo le sue possibilità e scoprendo cose nuove che riportano un senso di anima e di incanto nella propria vita, può trovarsi letteralmente in qualsiasi pratica che ci muova dentro.

Qualsiasi attività che ci scolli dai limiti di quell’io utilitario che serve a funzionare in modo efficiente nella società: dall’arte alla preghiera, dallo sport all’immersione nella natura, dalla musica al volontariato, per passare a miriadi di altre pratiche che ognuno può scoprire o si può inventare.

Nel momento in cui siamo assorbiti da qualcosa a cui diamo un valore intimo, ci arrendiamo almeno un po’ al flusso della vita, senza costringerlo entro i limiti asfittici del quotidiano.

Una delle vie che ho trovato sul mio percorso per esplorare questo rapporto fra le mie funzioni più accentratrici e direttive, ed il desiderio di lasciarmi andare, è stata sicuramente la meditazione.

La meditazione ha la potenzialità di scardinare da dentro, almeno un po’, quella dicotomia del tempo quotidiano diviso in due di cui ho parlato prima.

Spesso basta dedicarle pochi minuti per introdurre nelle nostre giornate l’esperienza di uno spazio vitale più vasto in cui muoversi.

Esso ci aiuta a porci in modo più flessibile di fronte alle tensioni e alle costrizioni che altrimenti innescano reazioni automatiche non sempre fruttuose per il benessere nostro e altrui.


Avvicinarsi con gentilezza alla meditazione

Mi sono interessato alla meditazione sin da quando ero adolescente, ma l’ho approfondita solo molto più tardi, dopo aver transitato per anni in varie pratiche spirituali e religiose, che ho poi scoperto avere aspetti troppo dogmatici per il mio modo di vivere la spiritualità.
Durante questi periodi sono spesso ritornato a forme semplici di meditazione per aiutarmi a ritrovare un contatto più diretto con me stesso.

E questa è proprio la caratteristica che più apprezzo di alcune forme di meditazione: la loro semplicità, il loro aderire a ciò che si è in questo momento, l’attenzione alle sensazioni basilari del corpo, come quelle relative al respiro, la coltivazione della gentilezza verso se stessi, senza dover aspirare a traguardi impossibili.

Se in una seduta di meditazione non arrivo a sentire quella pace a cui aspiro, avrò comunque dedicato qualche minuto al silenzio, ad ascoltarmi, al mio respiro, e soprattutto mi sarò fermato e riposato, almeno nell’intenzione.

E una delle chiavi mi sembra stia proprio in questo: nell’imparare a non orientare più anche la pratica meditativa verso un obiettivo utilitario che, per quanto non materialistico, sempre obiettivo resta, e quindi ci riporta in quella dimensione di tensione verso qualcosa che non ci permette di darci realmente pace.

Un’immagine che mi viene spesso in mente per dare forma a questa attitudine è quella di un genitore estremamente amorevole che aiuta un bambino.

Egli gli dà lo spazio di cui ha bisogno per esplorare la vita e il mondo, non lo soffoca, non lo giudica, ma è lì, presente, anima e corpo, per sostenere la curiosità, gli sforzi, il dolore, la gioia di quell’essere un po’ sperduto ma capace di meraviglia.

Ecco, meditare per me significa forse mettere in relazione dentro me quel genitore e quel bambino.


La meditazione come semplice atto d’amore

Non starò a fare una lista di libri, app, e siti web sulla meditazione perché ce ne sono un’infinità e sono facilmente accessibili a chiunque- Questo articolo non vuole essere una guida a trovare quella giusta, siccome sono convinto che ci siano tante strade possibili quanti sono gli individui, e probabilmente anche di più.

Mi vorrei solo concentrare sull’aspetto che ho appena accennato delle qualità più semplici dell’atto meditativo e dell’amorevole accettazione di se stessi che la meditazione può aiutare a coltivare.

In questo senso ci sono stati due autori in particolare che, in modo diverso, mi hanno aiutato molto, e i cui libri e materiali sono ampiamente disponibili online: la psicologa americana Tara Brach e il monaco vietnamita Thich Nhat Hanh.
Entrambi fanno riferimento a tradizioni buddiste ed entrambi sono fautori di forme di meditazione che oggi in Occidente sono sempre più spesso raggruppate entro la dicitura “Mindfulness“.

L’accettazione radicale secondo Tara Brach

Tara Brach presenta il suo approccio con una formula: “Accettazione Radicale” (anche se il suo libro “manifesto” è stato tradotto in italiano con il titolo “Il Potere Straordinario dell’Accettazione Totale”.

Basandosi su insegnamenti buddisti e sulla sua esperienza di psicoterapeuta, Brach ci invita ad affrontare con gentilezza quel senso di inadeguatezza che per molti di noi sembra essere il sottofondo costante della vita. Descrive questo sentimento come una trance, dalla quale è comunque possibile risvegliarsi grazie alle pratiche buddiste di consapevolezza.

Con un approccio gentile alla meditazione, possiamo coltivare la compassione e l’attenzione (mindfulness) per contrastare la nostra tendenza a metterci in conflitto con tutte quelle esperienze interiori che ci sembrano troppo intense, oppure aliene o allarmanti.

Una genuina accettazione di sé consiste di una visione chiara unita alla capacità di abbracciare la nostra esperienza con compassione. Si tratta di due parti interdipendenti come le ali di un uccello. Insieme, ci aiutano a volare e ad essere liberi.

Seguendo questo approccio, la mia esperienza della meditazione si è spesso rivelata come un’intensificazione della mia facoltà di ascolto di me stesso, con le mie sensazioni corporee, le emozioni, i pensieri, e tutto ciò che emerge nei momenti di silenzio e attenzione.

Si tratta di un vero e proprio senso di espansione dello spazio interiore che permette di muoversi nella vita con più libertà e consapevolezza, e in cui arrendersi, lasciare andare il controllo, fa molto meno paura, siccome possiamo essere testimoni della nostra vita interiore senza che ci travolga.
In questo senso, mi abbandono a un senso di riconoscimento e accettazione di ciò che emerge, senza cercare di imporre il mio controllo.

Thich Nhat Hanh e il riposo totale di cui abbiamo bisogno

Ciò che più apprezzo di Thich Nhat Hanh invece è l’assoluta semplicità delle sue istruzioni e del suo approccio Zen, che permette di avvicinarsi alla meditazione come a una forma di pratica curativa dell’anima, disponibile a chiunque ne senta il bisogno, senza la necessità di un percorso spirituale specifico e approfondito.

Allo stesso tempo la sua guida è sempre precisa e compassionevole. Nel suo classico “Il Miracolo della Presenza Mentale” (The Miracle of Mindfulness), alla domanda “Perché dovremmo meditare?”, Nhat Hanh risponde con estrema semplicità:

Prima di tutto perché ognuno di noi deve poter riposarsi in modo totale. Anche una notte di sonno non garantisce un riposo completo. Ci si rigira nel letto, con i muscoli facciali tesi, e nel frattempo si sogna: non lo chiamerei propriamente riposo! Così come non lo è stendersi sul letto, se si continua a rigirarsi o ad essere agitati. […] È possibile trovare il riposo totale sedendo in meditazione, risolvendo al contempo le preoccupazioni e i problemi che turbano e bloccano la coscienza.

Riposo totale, gentilezza, accettazione, riconoscimento e, spesso, grandi passi verso la risoluzione di ciò che ci turba e ci blocca.
Sembrano aspetti così lontani dal nostro vissuto quotidiano, e invece sono a portata di respiro, se solo decidiamo di arrenderci ad essi: una o anche due volte al giorno.


Davide Ariasso – Autore | Email | LinkedIn Firma Autori

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