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Due casi di sindrome da stanchezza cronica

Quando qualcosa ti impedisce di guarire

Image by Kinga Howard on Unsplash.com

Maria

Maria, donna di mezza età, è una paziente conosciuta per caso durante una cena professionale. Era una cena di lavoro a cui partecipava anche questa signora che ogni tanto si alzava da tavola per andare a sdraiarsi sul divano del salone enunciando a tutti senza vergogna di essere malata e di essere in terapia medica per sindrome da stanchezza cronica.

A tavola racconta tranquillamente a tutti che durante la guida spesso le viene sonno e deve cercare un posto tranquillo dove poter parcheggiare e poter dormire e riposarsi (cosa che chiaramente le rendeva difficili oltre che potenzialmente pericolosi gli spostamenti alla guida).

Gli amici comuni le consigliano un percorso psicologico, e lei accetta.

Inizia così la sua nuova avventura. In pochi mesi Maria arriva alla consapevolezza di tanti elementi della sua vita che la “stancavano” molto, la spossavano realmente emotivamente: le difficoltà nel lavoro, i rapporti con i figli diventati “grandi”, le problematiche con l’ex marito.

Praticamente tutti gli specialisti che la seguivano (o che l’avevano seguita) l’avevano imbottita di antidepressivi e il messaggio che le era arrivato era che “per la stanchezza cronica non c’è niente da fare”.

Lei ottiene invece progressi insperati, insperati da lei stessa (e li riconosce) e sinceramente anche da chi di noi la seguiva. Ricomincia a lavorare meglio, guida per tratti sempre più lunghi senza bisogno di fermarsi e dormire, riduce e regolarizza gli orari di sonno notturno. Si dichiara soddisfatta del percorso e viene volentieri agli incontri. Tutto questo per alcuni mesi.

Improvvisamente un giorno non si presenta all’appuntamento. Non esistevano i cellulari come oggi, quindi si dovette telefonarle per sapere se fosse successo qualcosa. La paziente rispose che aveva avuto un nuovo episodio di intensa stanchezza, che non era venuta perché era troppo stanca e che aveva deciso di  interrompere gli appuntamenti perché tanto “non c’era niente da fare per lei”.

Ivana

Ivana era una ragazza giovane che lavorava in un negozio di articoli sportivi. Tra le altre cose aveva anche subito diverse rapine in negozio, e sembrava avesse reagito sufficientemente bene agli shock.

Si presenta su consiglio (o meglio, spinta) della madre, con la quale viveva. Ivana non era sposata, pur frequentando un ragazzo da diversi anni ma vivendo con lui un rapporto in profonda crisi. Tra le altre cose, soffriva anche di vulvodinia. Era in terapia farmacologica per depressione resistente da anni.

Non arriva molto convinta alla prima seduta, ma ci arriva. Racconta che, abitando al secondo piano di una casa senza ascensore, la sua stanchezza le impediva anche spesso di uscire di casa perché era talmente stanca da non riuscire neppure a fare le scale. Era quindi in pausa sul lavoro da diversi mesi, per questo (ricordiamo su pressione della madre) aveva deciso di provare ad intraprendere un percorso psicologico.

Durante il percorso si evidenziano notevoli difficoltà di rapporto con la madre (vedova), con il fidanzato, ma soprattutto con i colleghi di lavoro che la accusavano continuamente di “non avere voglia di lavorare”.

Ci lavoriamo sopra per alcuni mesi. La ragazza riprende a fare le scale. I litigi con il fidanzato continuano, i litigi con la madre per la difficile continua convivenza continuano, ma riprende il lavoro.

Abbiamo testimonianze di conoscenze comuni che la ragazza usasse bene le gambe e che camminasse sciolta, qualcuno disse anche che l’avevano rivista sorridere dopo tanto tempo e ne erano rimasti stupiti. Sembrava stesse rifiorendo.

Ad un certo punto la madre telefona e dice che la ragazza si è sentita ancora stanca e che era tornata improvvisamente ad esprimere sentimenti depressivi, si era rimessa praticamente in casa a letto e da lì non si voleva più muovere. La madre stessa aveva telefonato per dire che la figlia aveva deciso di interrompere questo suo viaggio psicologico. Con grande dispiacere della madre e delle persone che la conoscevano e l’avevano vista un po’ rinascere.


Perché succede questo?

Bella domanda vero? A volte il paziente arriva, chiede disperatamente aiuto e poi…reagisce negativamente alla guarigione o al miglioramento quasi voglia rifiutarlo.

Gli psicologi (ma in realtà anche i medici) vedono tantissimi pazienti che hanno questo atteggiamento. Cosa può portare quindi un paziente a chiedere prima aiuto e poi a “ribellarsi” alla guarigione o comunque ad un trattamento?

La risposta non è unica per tutti. Esistono tante risposte quante sono le persone che vivono su questo pianeta.

Esistono motivazioni consce e motivazioni inconsce.

Esiste che ci si può trovare davanti ai propri mostri e non riuscire ad affrontarli. Esistono concezioni totalmente scorrette su molte malattie che impediscono approcci funzionali, oppure anche l’essere talmente abituato alla malattia o al disturbo da non sapersene più liberare.

Esistono zone di confort da cui si ha paura di uscire.

Esistono anche resistenze dovute al fatto che qualcuno pensa che “non è lui che deve cambiare ma è l’altro” (es. il fidanzato, la moglie, il capo al lavoro, il mondo intero, etc.).

Esistono vantaggi secondari alla malattia presenti in tutte le malattie dal raffreddore al cancro, come anche esiste l’incapacità di stare bene, oppure l’incapacità di saper cambiare.

Pertanto ognuno “non riesce” a proseguire un percorso psicologico per tutta una serie di motivazioni personali, ripetiamo sia consce che inconsce.

Vediamo quindi tantissimi pazienti che, quando ottengono miglioramenti, non sono capaci di mentalizzarli o di gestirli o appunto di stabilizzarli. Rendere conscio l’inconscio è per molti, umanamente, molto difficile; per qualcuno addirittura insopportabile.

Esistono poi, sempre sulla stessa linea con parallelismi per il paziente stesso, anche pazienti che, posti di fronte ad un evidenza di altri che hanno ottenuto una buona risoluzione della propria malattia seguendo un percorso psicologico se non addirittura la guarigione, addirittura li denigrano tacciandoli di mentire (“effetto incredulità”, descritto da Grazzini e Mahony).

Il paziente quindi, per tutta una serie di motivi, non è in grado di tollerare miglioramenti o la guarigione (talvolta appunto neppure quella degi altri appunto), e la malattia è come una stampella che serve a reggere la situazione in modo spesso doloroso ma per il paziente (non sempre con successo) funzionale.


Alcune conclusioni:

Il lavoro psicologico è diverso da quello medico. Per lo psicologo il sintomo o una malattia ha anche un significato che va inquadrato nella storia e nelle condizioni di vita del paziente. Questo cerchiamo sempre di spiegarlo ai pazienti esplicando il tipo di percorso, ma a volte (purtroppo più spesso di quanto non si può credere), vincono i mostri e le paure, e il paziente, come dicevamo, posto davanti alla guarigione da una parte ma alle problematiche che deve affrontare dall’altra, torna nella propria zona di comfort garantita dalla malattia. E lì…non ci possiamo fare niente, perché, detto molto semplificato e con molto rispetto, non si può guarire chi non ha voglia di guarire.

Maria ed Ivana con il miglioramento si sono trovate davanti al fatto di dover affrontare problemi forse più grandi di loro, i figli, la famiglia, il lavoro, e qualcosa in loro le ha fatte tornare indietro nella loro malattia come zona comfort.

Per poi continuare chiaramente, come più volte viene spiegato in letteratura in molti modi, a cercare farmaci inesistenti e a proclamare l’impossibilità di poter risolvere determinate situazioni.


Stanchezza Cronica: accorgimenti utili:

L’esperienza insegna che ci possono essere degli accorgimenti da adottare già all’inizio di un percorso con questo tipo di soggetti.

Innanzitutto una corretta informazione. Ci sono pazienti con fibromialgia, stanchezza cronica o altre patologie ritenute “incurabili” che invece ottengono ottimi risultati e ne parlano apertamente. Importantissimo quindi è riferire correttamente le reali possibilità di risoluzione in queste sindromi quando ritenuto possibile, in modo da motivare realmente il paziente.

In secondo luogo invitarlo a pensare come sarebbe la sua vita se non avesse quel tipo di patologia, in modo da rendere inaccessibile quanto prima (e per quanto possibile) a che tipo di ostacoli o resistenze potrebbe trovarsi davanti e se e come si può lavorare in maniera funzionale con lui.

Ultimo, ma non ultimo per importanza, anche la somministrazione di questionari adeguati risulta utile per esaminare da subito le motivazioni e le predisposizioni del paziente ad accettare un percorso psicologico oltre che le sue capacità di impegnarsi a comprendere il proprio comportamento e quello degli altri.


Dott.ssa Emanuela Grazzini Autrice presso La Mente Pensante Magazine
Dott.ssa Emanuela Grazzini
Psicologa e Psicoterapeuta
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Dott. Alessandro Mahony Autore presso La Mente Pensante Magazine
Dott. Alessandro Mahony
Psicologo
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