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Come superare un fallimento

Riflessioni sull’arte di saper perdere

Image by Man Chung on Unsplash.com


La parola fallimento mi ha sempre fatto sorridere. Cosa vuol dire fallire? Sul vocabolario trovo scritto che ha a che fare col commettere una colpa, sbagliare, venir meno – alle promesse, alle aspettative, alle attese. Deludere qualcuno e/o noi stessi.

Se ci riflettiamo un attimo, questo termine ha molto di opinabile, di dipendente dal giudizio personale, dalla storia di ognuno, dagli strumenti che abbiamo a disposizione per affrontare gli eventi spiacevoli della nostra vita.

Quello che costituisce un fallimento per qualcuno, per un altro potrebbe rappresentare una delle tante delusioni che tutti, prima o poi, ci troviamo ad affrontare: un progetto non portato a compimento, un corso di studi che si rivela non essere adatto a noi, una relazione che fa acqua da tutte le parti. C’è chi, queste esperienze, le vive come una vera e propria tragedia, un colpo basso all’autostima, qualcosa che va a intaccare il valore personale. Altri, invece, tendono a ridimensionare la portata dell’evento, lo considerano un incidente di percorso, qualcosa che non dice nulla del proprio valore, ma solo che quella non era la strada giusta.

Di conseguenza, le strategie per superare un fallimento – o meglio, quello che percepiamo come tale – possono essere diverse: c’è chi si tuffa subito in una nuova impresa, chi si piange addosso con la granitica certezza che le cose andranno sempre male; ci sono quelli che minimizzano il problema, raccontandosi che non hanno poi perso molto e, infine, ci sono le persone che provano a capire in che punto il meccanismo si è inceppato, se in corso d’opera o se c’era qualcosa che strideva già dalle premesse, riflettendo anche su quelle che potrebbero essere le soluzioni da adottare per rimettersi in carreggiata. 


Il potere trasformativo dell’errore

Credo che ognuno di noi, dentro di sé, abbia una griglia più o meno strutturata in cui alcune caselle significano “successo”, mentre altre stanno a indicare “disfatta totale”. Tra le due tipologie ce ne sono di intermedie, la cui composizione vede la presenza in percentuali diverse di entrambi gli ingredienti. Alcuni hanno una percezione degli eventi, per così dire, flessibile – quindi nel loro universo psichico vi è un alto numero di caselle intermedie – mentre altri hanno giurato amore eterno al binomio bianco/nero e rifuggono da tutto ciò che possa assomigliare vagamente a una sfumatura di grigio.

C’è quindi chi si sente un fallito se non ottiene il lavoro dei suoi sogni, ma c’è anche chi si avvilisce davanti a una torta venuta male. In ogni caso, per entrambe le situazioni è possibile guardare le cose da una prospettiva diversa. Non per un fine autoconsolatorio, ma proprio perché avere una visione più ampia di ciò che ci accade è fondamentale per trovare ricchezza dove pensavamo ci fosse solo perdita e per procedere con la nostra evoluzione personale.

Ne L’arte di sbagliare (Ed. Bompiani), Kathryn Schulz riflette sul fatto che spesso le persone hanno una visione distorta dell’errore perché tendono a equiparare l’avere ragione con l’essere intelligenti. In realtà le cose non stanno propriamente così: partendo dal presupposto che tutti sbagliamo, l’autrice ritiene che un atteggiamento intelligente sarebbe quello di riconoscere l’errore e di adattare di conseguenza le proprie convinzioni in modo veloce e funzionale alla nuova realtà dei fatti.

In definitiva, praticando la cosiddetta “arte del kintsukuroi” e cercando di non additare l’errore come qualcosa da evitare come la peste, ci renderemmo conto del suo potere trasformativo e di quanto questo possa spingerci a intraprendere strade che potrebbero rivelarsi significative in modi che neanche immaginiamo.


Superare un fallimento guardando al processo

Tutti noi siamo fallibili: prima o poi un errore lo facciamo, qualcosa o qualcuno lo perdiamo. Quante volte abbiamo avuto in mente grandi progetti che poi si sono risolti in un niente: non era il lavoro giusto, la persona giusta, la città giusta.

Se solo ogni tanto ci focalizzassimo non sullo scopo ultimo delle nostre azioni, ma sul processo che abbiamo messo in atto per raggiungerlo, provando a dividerlo in fasi distinte ed evitando di demonizzarlo nel suo complesso, non solo avremmo maggiori probabilità di intercettare ciò che è andato storto e di correggere il tiro per fare meglio la prossima volta, ma riusciremmo anche ad acquisire consapevolezza rispetto a ciò che, comunque, è stato fonte di arricchimento personale.

Concentrandoci solo sull’obiettivo, se non lo raggiungiamo, è abbastanza ovvio che ci sentiremo dei falliti. In realtà la meta dovrebbe essere semplicemente un qualcosa che muove le nostre azioni, non il fine ultimo del percorso intrapreso. Questo potrebbe essere impervio e potrebbe capitare di cadere e farci anche molto male: saranno quelli i momenti in cui dovremmo chiederci “perché è andata così?”, “quale lezione devo imparare?”.  A volte decideremo di procedere per quella strada adottando nuove strategie, altre capiremo che l’opzione migliore è quella di intraprenderne una diversa.

Queste domande, quindi, ci faranno riflettere su noi stessi e sulle nostre scelte, rendendo così l’esperienza della perdita un momento di crescita. È questo il presupposto per superare un fallimento: sapersi adattare alle vicissitudini della vita cercando di prenderne sempre il meglio, così come ci ricorda Konstantinos Kavafis nella sua Itaca:

 

Itaca ti ha donato il bel viaggio,

senza di lei non ti mettevi in via.

Nulla ha da darti più

E se la trovi povera, Itaca non ti ha illuso.

Reduce così saggio, così esperto,

avrai capito che vuol dire un’Itaca.


Giulia Adamo Autrice presso La Mente Pensante
Giulia Adamo
Autrice
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