
Quando adattarsi fa male
La trappola della resilienza che ci allontana da noi
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Immaginiamo una rana immersa in una pentola d’acqua tiepida. Il fuoco sotto la pentola è acceso e la temperatura sale gradualmente. Inizialmente la rana trova l’acqua piacevole, poi sempre più calda; tuttavia, si abitua al cambiamento lentamente. A un certo punto l’acqua diventa bollente, ma ormai la rana è troppo debole per saltare fuori. Finisce così bollita, non perché non potesse salvarsi, ma perché non ha riconosciuto per tempo il pericolo dei cambiamenti graduali. Questa famosa metafora – utilizzata anche dal linguista Noam Chomsky – illustra in modo potente la trappola dell’adattamento disfunzionale: la tendenza ad abituarsi a situazioni nocive fino a considerarle normali, rischiando il proprio benessere.
Quando l’adattamento diventa patologico
L’adattamento psicologico è in genere considerato una virtù: ci permette di essere flessibili, di sviluppare resilienza e affrontare le avversità. In psicologia, la resilienza indica proprio la capacità di reagire in maniera costruttiva alle difficoltà, anziché subirle passivamente. Ma quando l’adattamento diventa una prolungata sopportazione di condizioni malsane, si trasforma in una trappola. A differenza della resilienza autentica – che implica crescita e capacità di trovare soluzioni – questa forma di adattamento ci porta ad introiettare silenziosamente, proprio come la rana che resta nell’acqua che si scalda pian piano.
Un effetto perverso di questo meccanismo è la normalizzazione delle situazioni disfunzionali. Ci adeguiamo a livelli crescenti di stress e disagio al punto da non esserne più consapevoli. Il medico e autore Gabor Maté, nel suo lavoro sulla connessione tra stress e malattia, avverte che col tempo possiamo abituarci a livelli insalubri di tensione fin quasi a non percepirli più, mentre in sottofondo il nostro corpo e la nostra mente ne subiscono le conseguenze. Maté nota infatti che quando non sappiamo dire di no e continuiamo a mettere i nostri bisogni all’ultimo posto, prima o poi sarà il corpo a farlo per noi, indebolendosi e manifestando il disagio sotto forma di malattia o esaurimento. In altri termini, se non prendiamo noi la decisione di uscire dalla pentola, il nostro organismo potrebbe collassare, obbligandoci a fermarci.
Negazione emotiva e perdita del sé autentico
Per capire come mai restiamo intrappolati, dobbiamo considerare meccanismi interiori come la negazione emotiva e l’evitamento esperienziale. Spesso, per adattarci a una situazione dolorosa, mettiamo a tacere le nostre emozioni, preferiamo negarle o minimizzarle. Si tratta di una forma di evitamento che può anche funzionare nel breve termine: volgiamo lo sguardo altrove pur di non affrontare il disagio. Steven Hayes, psicologo fondatore della Acceptance and Commitment Therapy (ACT), ha evidenziato come cercare di sopprimere o evitare le esperienze interne sgradevoli in realtà finisca per amplificarne l’impatto a lungo andare, intrappolandoci in circoli di sofferenza e rigidità. Quando neghiamo costantemente le nostre emozioni, perdiamo anche la capacità di utilizzare le informazioni che esse ci forniscono: la rabbia, ad esempio, se riconosciuta, può darci la spinta a reagire a un’ingiustizia; la tristezza può segnalarci che abbiamo bisogno di un cambiamento o di supporto. Se le anestetizziamo, restiamo magari “funzionanti” in apparenza, ma fermi nella situazione dolorosa.
Il caro prezzo: una bussola che non punta al nord
Un adattamento passivo protratto nel tempo comporta anche la perdita di contatto con i propri valori e con l’autenticità personale. Più ci abituiamo a vivere nel malessere, più rischiamo di dimenticare cosa è veramente importante per noi. Può aiutarci immaginare i valori personali come “direzioni di vita liberamente scelte”, una sorta di bussola interiore che orienta le nostre decisioni e dà significato alla nostra esistenza. Se però restiamo in una situazione disfunzionale solo per abitudine o paura del cambiamento, saranno proprio quei principi ad essere sacrificati. Ad esempio, una persona che apprezza profondamente l’onestà e il rispetto reciproco potrebbe assuefarsi a una relazione in cui prevalgono menzogna e disprezzo, perdendo la connessione con la propria bussola etica pur di mantenere il legame. Come spiega lo psicoterapeuta Gabor Maté, esiste un conflitto di fondo tra il bisogno di attaccamento (esser accettati, mantenere relazioni) e il bisogno di autenticità (essere fedeli a sé stessi). Quando temiamo di perdere un legame importante, scegliamo quasi sempre l’attaccamento a scapito dell’autenticità.
Così facendo, cediamo pezzi di noi stessi un po’ alla volta, in quella che Maté definisce una “tragica transazione” in cui garantiamo la sopravvivenza emotiva rinunciando a chi siamo davvero. Col tempo questa perdita di contatto con i propri valori e sentimenti può lasciare un vuoto profondo, oppure manifestarsi in segnali che indicano che la bussola interna non punta più verso la nostra realizzazione, ma si è tarata solo sulle aspettative altrui o sulle esigenze dell’ambiente disfunzionale.
Uscire dalla pentola
Come possiamo allora evitare di fare la fine della rana bollita? Il primo passo è coltivare la consapevolezza di sé. Dobbiamo imparare ad ascoltare quei segnali interni che indicano disagio, invece di negarli o considerarli un fallimento personale. Proviamo rabbia, tristezza, paura? Invece di giudicarci deboli per questo, possiamo chiederci cosa queste emozioni stiano cercando di dirci della nostra situazione. Riconoscere di star male non è arrendersi, ma anzi il preludio a un cambiamento sano. Significa smettere di giustificare l’ingiustificabile. Significa uscire dalla normalizzazione del malessere e chiamare le cose col proprio nome. L’autotutela non è egoismo: è responsabilità verso sé stessi. Smettere di fare la rana significa scegliere una vita più vicina a ciò che conta davvero. Non tutte le situazioni meritano la nostra adattabilità, alcune meritano un addio. E il coraggio di saltare.
Dott.ssa Alice Zanotti
Tecnico della Riabilitazione Psichiatrica laureata in Psicologia Clinica e della Riabilitazione
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