Gli effetti collaterali del therapy-speak sulla popolazione generale
Come parliamo di noi?
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Il linguaggio psicologico, quel complesso vocabolario culturale usato all’interno della stanza di terapia, sta cambiando il modo in cui parliamo di noi stessi? È la provocatoria domanda che pone ai lettori il giornale The Guardian, in un articolo dell’agosto scorso, che esamina la diffusione a macchia del therapy-speak.
Definizione
Per therapy-speak si intende un linguaggio psicologico che potremmo definire “pop”, fatto di cliché, luoghi comuni, concetti astratti, giri di parole, che poco hanno a che fare con il parlare del cuore della stanza di terapia (J. Shedler).
È chiaro come il glossario appartenente al mondo psicologico permei da tempo la cultura popolare.
Negli anni, termini legati all’universo psicoanalitico sono diventati vocaboli d’uso comune: “inconscio”, “rimozione”, “lapsus”, “isteria”, per citarne alcuni.
Eppure, ultimamente appare evidente come il complesso vocabolario appartenente alla disciplina psicologica sia stato preso d’assalto, divenendo parte del gergo comune, sui social network e nelle conversazioni quotidiane.
Promozione del benessere mentale
La diffusione del linguaggio psicologico all’interno della popolazione generale corrisponde a una maggiore consapevolezza e attenzione per le dinamiche psicologiche, all’abbattimento dei tabù che avvolgono i disturbi mentali in una nube opaca di timore e mistero, alla riduzione dello stigma nei confronti degli operatori della salute mentale (psicologi, psicoterapeuti, psichiatri).
In particolare, la generazione Z sta cercando di trattare e promuovere il benessere mentale attraverso piattaforme come YouTube e social network come Instagram e TikTok, che ottengono numeri di visualizzazione colossali per queste tematiche.
L’hashtag dedicato, #SaluteMentale, è di grande tendenza tra i giovanissimi, a livello nazionale e mondiale.
Therapy-speak: effetti collaterali
La promozione di uno stile comunicativo caratterizzato dall’uso indiscriminato di termini psicologici, dal forte impatto emotivo per chi li pronuncia e per chi li ascolta, comporta significativi effetti collaterali.
Ormai, si tende a discutere a cena di “stili di attaccamento”, “traumi infantili” e “stimoli trigger“. Si scherza sull’uso dei propri “meccanismi di difesa“. Si evitano le persone “tossiche” e i “narcisisti patologici“. Si racconta agli amici di essere cascati nelle trame di una dolorosa “dipendenza affettiva.”
In altre parole, il linguaggio psicologico viene snaturato e banalizzato, ridotto a un insieme di concetti astratti, ragionamenti artificiosi, cliché e luoghi comuni, che poco hanno a che fare con il parlare del cuore della stanza di terapia (J. Shedler).
I rischi dell’uso indiscriminato del linguaggio terapeutico sono molti:
- patologizzare una serie di comportamenti ed eventi che, seppur dolorosi e fastidiosi, non lo sono (una delusione d’amore, una lite con un amico, una giornata stressante).
- prendere le distanze, in modo difensivo, dagli aspetti difficili della vita emotiva e non entrare in contatto con il proprio mondo interno (“cosa provi quando sei stressato? come vivi questa relazione difficile?”)
- etichettare la realtà senza esplorare il significato soggettivo di quell’evento attraverso parole proprie (“spiegami meglio: cosa significa per te quello che è successo?”)
- appiattire le emozioni umane con termini generici, eliminare le sfumature di senso e il contesto di riferimento (“con quali parole descriveresti la tua insoddisfazione? Come parleresti dei problemi che hai con il partner”?)
Conclusioni
È chiaro quanto sia estremamente importante soppesare le parole da utilizzare. Ancor più importante, prestare attenzione ai termini da evitare. In merito, la poetessa Alda Merini scriveva che le piaceva chi sceglieva con cura le parole da non dire. Non possiamo che concordare.
La complessità dell’esperienza umana, per essere descritta con autenticità, esige un lessico complesso e un vocabolario ampio. La lingua italiana offre un ampio ventaglio di possibilità per delineare un quadro onesto e sfaccettato, delle personali esperienze di vita, di ciò che proviamo, delle situazioni in cui ci troviamo, delle relazioni che viviamo.
Senza ricorrere a tecnicismi svuotati di senso, a tematiche psicologiche di tendenza, a vocaboli fraintesi e snaturati, è possibile ritornare a parlare di sé stessi con le proprie parole, accuratamente scelte da sé per sé, nelle sfumature di senso in cui si annida il senso profondo del proprio vissuto e del proprio essere.
Link di Riferimento
“That’s triggering!” Is therapy-speak changing the way we talk about ourselves?
Dott.ssa Annamaria Nuzzo
Psicologa Clinica | LMP Library Editor
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