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L’osservazione del mondo: i giardinetti…

…ovvero, le “patologie” in libertà


Chi di noi non è mai stato ai giardinetti o al parco? Figli, nipoti, cani, picnic, passeggiata nel verde  o chissà quale altro motivo….

Proviamo a sederci virtualmente su una panchina e osserviamo, rispettosi ed in silenzio, le persone che ci stanno attorno e ci capiterà di capire qualcosa di loro e magari anche di noi stessi.

L’osservazione rispettosa è una pratica molto utile per mettersi un po’ nei panni degli altri e capire perché, a volte, le persone si comportino in un determinato modo.

Un “bagno” di umanità

Nessun pregiudizio o ricerca di facili verità, o selvagge diagnosi giusto per fare bella figura, tanto meno pruderie o voyeurismi. Così, un bagno di umanità, con l’occhio attento del clinico a riposo.

Ecco una mamma, carrozzina e un altro piccolo bimbo.

E’ giovane  e ben messa e non ha l’aria della mamma felice di fare la mamma. Ha l’aria distratta. Magari vorrebbe essere in un altro posto, forse in ufficio o fare shopping o con le amiche… e chissà se avere due figli era nei suoi programmi. Magari no, ma non lo sappiamo.

La considerazione nasce spontanea da una minima osservazione del suo comportamento.

Al di là dell’abbigliamento molto curato decisamente apprezzabile ma non di un’uscita giusto per portare un po’ a spasso i bambini, salta all’occhio il distacco dal ruolo che in quel momento dovrebbe rispettare, ossia occuparsi dei bambini.

Telefono in mano, chiacchiera e anche sufficientemente a voce alta, disinvolta e compiaciuta.

Il bambino nella carrozzina piange, l’altro si trascina attaccato alla carrozzina con un pupazzo, decisamente consolatorio, in mano.

E’ una mamma anaffettiva che pensa a sé e basta? Mah! Sarebbe troppo fare una sorta di considerazione/diagnosi così tout-court.

Che ne sappiamo della sua vita?

Però facciamo finta che ci tocchi l’osservazione del “carattere psicologico“.

E allora: mettiamo insieme ciò che vediamo.


Osservazione: realtà o finzione? Ovvero, occupiamoci della raffigurazione

I piani sono tre: quello oggettivo offerto alla visione, quello soggettivo della percezione e quello della raffigurazione, ossia del “significante“, questi ultimi livelli di maggiore pertinenza psicologica.

Magritte ci insegna che “une pipe n’est pas une pipe“, ossia la pipa che vediamo dipinta nel quadro “non è una pipa“. Cosa vuol dire?

Vuol dire che attraverso la visione di quella pipa si mettono in atto tutte le emozioni, consce e non, legate alle più personali, soggettive, remote, impercettibili associazioni.

E’ l’inconscio che si muove e ci smuove.

Questo funziona sempre e comunque in qualsiasi situazione.

Ciò che vediamo è ciò che vogliamo vedere.

Questo non significa che non si sia oggettivi, no – assolutamente no – significa che vediamo e percepiamo.

Vediamo con gli occhi e percepiamo con la mente. E la mente ci porta dove vuole, perché è assoggettata alle nostre esperienze, da esse dipende e con esse danza nel mondo dell’onirico.

Un sogno diurno, in cui noi diventiamo protagonisti di ciò che abbiamo visto con gli occhi e possiamo decidere cosa interpretare nella visione e come.

Dalla passività di soggetto ricevente all’attività di soggetto agente (al posto di).

Un quadro, un’immagine, un colore, un profumo, un volto, un paesaggio, un corpo ci piacciono o non ci piacciono perché ad essi abbiniamo ciò che le esperienze e l’inconscio ci dicono.

Chiunque può riflettere su questo e trovare una spiegazione ed una conferma nel proprio modo di essere e di fare.

Dunque, ciò che viene offerto alla visione non è mai ciò che soggettivamente vediamo.

Ciò che è universalmente codificato è il nome, ciò che vediamo può essere da tutti (culturalmente simili) nominato alla stessa maniera.

Cioè, un tavolo è da tutti chiamato tavolo, ma non  da tutti è “significato” come tavolo.


La soggettività e l’oggettività dell’interpretazione, ovvero, la fusione

L’interpretazione è oggettiva, ossia scevra da condizionamenti personali e dunque soggettivi, ma questo non è possibile perché chi interpreta è una persona, ossia un soggetto. (Ovviamente nulla a che vedere in riferimento alla decodifica di dati attraverso un programma computerizzato, tipo rilevazione per punteggio test).

Quindi, evidentemente, vi è la possibilità di far ricorso all’obiettività di cui ogni persona è provvista.

Ma neppure questo basta, perché l’oggettività non è misurabile in ragione di ciò che è da interpretare: c’è sempre il rischio delle influenze inconsce e delle influenze caratteriali, cioè le inquadrature per schemi mentali in dualismi (bello/brutto – buono/cattivo – simpatico/antipatico eccetera) e, dunque, neppure di questo ci si può fidare totalmente.

E’ un male? No, personalmente non credo, perché la differenza di interpretazione soggettiva di un fatto, di un’immagine o di altro ci dona la differenza da uno all’altro, ossia ci dona l’unicità dell’Essere Umano.

Per quanto oggettiva, io sono io, con tutto il mio patrimonio psicologico che è mio e solamente mio, con ciò che mi informa e mi forma, con ciò che mi permette di stare al mondo e di decodificarlo con i miei parametri che mi indicano come vivere.

Sembra una cosa da poco, ma credo che chiunque possa capire quanto sia importante tener conto di come siamo fatti.

Ed ecco il punto: come siamo fatti.

Cultura e natura verrebbe semplicemente da dire. Va bene, patrimonio genetico e patrimonio acquisito.

Alla psicologica interessa di più il patrimonio appreso, acquisito, ossia interessa la mente nelle sue svariate manifestazione tradotte in pensieri e azioni, dunque in  comportamenti autoriferiti e riferiti alle relazioni con gli altri.

E tali comportamenti possono essere adeguati o non, ovvero non confacenti con la “regola” sociale oppure, ancor più, con la “regola” della sanità mentale.

Al mondo c’è tutto ciò che occorre per leggere, interpretare, decodificare i comportamenti lungo il filo del normale/anormale. E dunque c’è anche la psicoanalisi.

La psicoanalisi si occupa dell’osservazione ermeneutica/interpretativa dei fatti proposti e lo fa con i propri mezzi finalizzati alla proposta terapeutica.

Lo strumento principale è l’interpretazione preposta alla sollecitazione associativa e, dunque, all’emersione del rimosso che “obbliga” a comportarsi in un tal modo.

La/lo psicoanalista è una persona, dunque un soggetto, ma – in professione – diventa non già una persona bensì un “oggetto” in grado di fondere la soggettività con la più verosimile oggettività possibile, in quanto le funzioni soggettive sono deputate alla qualità relazionale terapeutica con tutto ciò che questo significa, mentre l’oggettività attiene alla neutralità.

Dunque, fusione e trasformazione della soggettività in capacità oggettiva.


Dal giardinetto all’osservazione neutrale: normalità o patologia?

Supponiamo di aver proprio deciso di occuparci della signora in riferimento al suo ruolo di mamma e, allora, che dire della mamma elegante-chiacchierina-distratta?

Mattiamoci subito l’abito della neutralità e cerchiamo di non ricorrere troppo in soggettive libere associazioni.

Il fatto che sia elegante ci potrebbe far pensare che, appunto come già detto, la signora non sia proprio calata nel ruolo, però magari e già pronta per andare in qualche posto subito dopo la passeggiata, magari a lavorare. Quindi questo dato non ci informa molto.

Però se volessimo proprio far ricorso all’esercizio della psicoanalisi (magari un po’ spicciola, per il qual fatto ci si scusa), potremmo  – in assenza di altri dati – interpretare il fatto come riluttanza/negazione del ruolo in favore di un’esigenza di immagine di donna attraente.

Credo sia importante precisare che essere mamma non significa in alcun modo non essere elegante, ciò che si vuole intendere è che c’è un contesto per ogni ruolo e che l’eleganza di ogni persona, mamma o non, non passa per l’abito che si indossa; l’abito, però, dà la rappresentazione di ciò che si vuole comunicare e la signora – forse e con ogni beneficio del dubbio – vuole essere riconosciuta e riconoscersi di più, principalmente, come donna elegante che è anche mamma.

Ammesso che sia la mamma, magari è la zia o chiunque altra persona che porta a spasso dei bambini   e dunque decade ogni interpretazione, ma ciò che è importante capire è che ogni ruolo prevede un atteggiamento adeguato.

Essere eleganti ai giardinetti lo è in misura della libertà di ognuno di rappresentarsi come meglio crede.

Dunque, questo elemento ci può solo portare ad una modesta classificazione di Narcisismo (con altri elementi o in altra situazione maggiormente clinica potremmo distinguere il tipo di narcisismo).

Nulla di più.

E’ l’elemento della distrazione rispetto ai bisogni dei bambini che ci fa pensare a qualcosa di più di un semplice carattere narcisistico.

La letteratura è piena di teorie sull’attaccamento e sullo sviluppo dei bambini e, dunque, non mi soffermerò.

Mi preme solo dire che l’accudimento dei bambini è cosa seria e che esige, sì, esige – un adeguamento genitoriale complesso e responsabile, all’interno del quale non c’è molto spazio per autoriferimenti narcisistici o isterici.

Portare a spasso i bambini nel parco è una possibile metafora del portarli a spasso nella vita, e come cammineranno dipende anche da come sono stati accettati e accuditi, al parco o dovunque.


Dott.ssa Grazia Aloi autrice presso La Mente Pensante Magazine
Dott.ssa Grazia Aloi
Psicoanalista | Psicoterapeuta | Sessuologa
Bio | Articoli | Video Intervista
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