Pensiero critico e worldbuilding
L’importanza di imparare a navigare il contesto, tra informazione e intuizione
Disegnare il contesto attraverso le informazioni
Quando affrontiamo una storia, la prima cosa che ci serve, per iniziare ad esplorarla, è il contesto.
Le prime pagine saranno dedicate a descrivere il mondo ordinario, l’ambiente e le abitudini del protagonista, un mondo che, nel secondo atto della storia, verrà almeno momentaneamente abbandonato.
Quando rileggiamo o riprogettiamo la nostra storia, dovremmo fare lo stesso: guardare il contesto in cui sono nate alcune abitudini, quella che è la nostra zona di confort di partenza, il momento iniziale, prima che un evento esterno o il nostro istinto ad agire, iniziasse a mettere in discussione quell’apparente equilibrio.
Nella nostra vita quotidiana il contesto è disegnato anche dalle informazioni e dal sistema che le distribuisce.
Se in antichità erano i sacerdoti a stabilire le regole di convivenza e quindi la normalità rispetto a un contesto sociale (che significa anche costruire relazioni che assicurano protezione e sicurezza), con la nascita della stampa quel ruolo è poi passato in parte ai giornalisti, che selezionando, confrontando e comunicando i tanti avvenimenti, contribuivano a muovere l’opinione pubblica e di conseguenza la politica e le leggi.
Leggere il giornale diventava uno strumento di worldbuilding, attività in cui ci esercitiamo continuamente per capire i confini in cui si può muovere la nostra vita, con quali rischi, quali regole di buona condotta, attraverso quali modelli.
Lo facciamo anche quando chiacchieriamo con amici e colleghi: raccogliamo informazioni e testiamo dove possiamo spingerci e quale posto occupiamo nella comunità.
Con l’aumento della complessità mediatica e l’inizio della cosiddetta Convergence Culture (Henry Jenkins 1994) i detentori di questo soft power si sono (nel bene e nel male) moltiplicati.
Senso critico come life skill
Oggi i mattoni per costruire il nostro contesto sono di diverse forme e colori, sono a volte solidi a volte di cristallo, ogni tanto vengono passati da una bella catena umana a volte sono tirati nel mucchio con violenza.
Il risultato di questa costruzione collettiva ancora non lo conosciamo, non viene (e non deve venire) regolata da qualche progettista, anche se qualche prefabbricato lo troviamo, e qualche antica fondamenta nata da progetti del passato ci può essere utile per edificare meglio il futuro.
Costruiamo città di informazioni per dare una cornice narrativa alla nostra vita, una vita che è inserita in un’avventura sociale (a sua volta inserita nella cultura del mondo).
Tra le life skills riconosciute dall’OMS come competenze utili al nostro benessere anche il senso critico.
Il senso critico è l’abilità ad analizzare le informazioni e le esperienze in maniera obiettiva e ci permette di prendere una posizione (rendendo quindi più chiaro agli altri se sono nostri antagonisti, se possiamo essere mentori e così via).
Più che giusta o sbagliata dobbiamo considerare una posizione come uno strumento che mettiamo a disposizione alla nostra cerchia perché vengano facilitate le relazioni e possa essere innescata (anche attraverso il conflitto) la creatività sociale; tutto questo muove la macchina narrativa individuale o storica.
Per comprendere come si forma il nostro senso critico, soprattutto nell’analisi del futuro, può essere interessante il concetto di metastoria.
Il concetto di metastoria
Ogni cultura ha una sua metastoria, che è diversa dalla storia effettiva.
Bruce Sterling è un autore di storie di fantascienza, quindi è abituato a sconfinare verso il futuro.
Secondo Sterling la metastoria di una cultura la aiuta a stabilire se una cosa nuova è appropriata, se sta sulla traiettoria che è considerata il percorso giusto: costruire Piramidi al tempo dei faraoni, ad esempio, non era una scelta bizzarra, rientrava nel senso comune.
Fino ad oggi era normale estrarre carbone e bruciarlo per avere energia, una possibilità sempre più messa in discussione.
Possiamo avere difficoltà a descrivere e preconizzare metastorie future, ma guardando al passato sappiamo che ce ne saranno.
È attraverso la metastoria che la gente arriva a rendersi conto che le cose nuove sono appropriate. I nuovi oggetti sono accettati come avanzamenti positivi quando possono inserirsi in un contesto metastorico, altrimenti vengono considerati imposizioni o stranezze.
Il senso critico ci impone però di vedere le stranezze con sguardo tollerante.
Non possiamo negare l’imprevisto, né le eccezioni.
Secondo Bruce Sterling, che argomenta la tesi nel suo libro “La forma del futuro”, superati i testi sacri che ne facevano la funzione, è necessario che la metastoria vada progettata: spesso le tecniche narrative vengono utilizzate per fare previsoni e progettare (gettare in avanti) scenari.
Se diamo ascolto a Karl Popper, tuttavia, leggere il futuro è “una velenosa malattia intellettuale”, soprattutto quando si cerca di creare nuovi modelli di umanità.
Il pericolo, secondo il filosofo, è indurre a forme d’interventismo. Popper tifava per un modello aperto e flessibile che consenta un aperto dissenso che l’interventismo impedisce.
Dal mio punto di vista la nostra creatività collettiva può essere ridotta da sistemi predittivi troppo rigidi e dettagliati rispetto al worldbuilding del futuro e in questo senso la cosiddetta ingegneria sociale, nata per prevedere le azioni utili al benessere umano e all’ecologia, può rischiare di togliere spazio a un elemento fondamentale delle storie umane, cioè la serendipità.
Un futuro costruito a tavolino in cui si cerca di indovinare tutte le domande e scrivere le possibili risposte, ci lascia orfani di quel divertimento che il gioco di risolvere (anche nel nostro piccolo) i misteri della vita ci dà.
Giorno dopo giorno come esseri pensanti risolviamo enigmi e così ci completiamo come esseri umani e cerchiamo di completare la storia di cui facciamo parte.
Per il nostro benessere non possiamo rinunciare a questo divertimento.
Per vivere la possibilità di crescere (secondo una dimensione orizzontale, che arricchendoci di esperienze ci pone a contatto con gli altri e non sopra gli altri) abbiamo bisogno di vedere più o meno chiaramente il contesto e saperlo navigare.
Questo significa avere competenze utili a montare e smontare le storie, perché partendo dai dati, costruiamo conoscenza ma quella stessa conoscenza va ritmicamente smontata per poterne aggiungere dei pezzi, pezzi invisibili prima ma (spesso grazie alla nostra evoluzione, anche tecnologica) manifesti dopo.
Mi sembra importante distinguere i passaggi dai dati alla consapevolezza (altra life skills individuata dall’OMS e importante soft skills nelle relazioni, anche di lavoro).
Dai dati alla consapevolezza
Un dato è una rappresentazione oggettiva e non interpretata della realtà: può essere un numero, ma anche un suono, un odore, una frequenza, un valore del sangue.
Tutto quello che è digitalizzabile e che riduce in quantità discrete quello che in natura è continuo. Un dato di per sé non ha significato.
Dalla capacità di correlare dati semplici nasce l’informazione, che è un dato dotato di rilevanza.
È il dato contestualizzato e interpretato, attraverso la nostra capacità di creare degli schemi tra gli elementi che stiamo analizzando, schemi che hanno aspetti soggettivi legati sia alla selezione di cosa si ritiene importante, sia alle strategie di connessione (come unire i puntini).
Il termine informazione deriva dal latino e significa “dare forma alla mente” e rappresenta il processo di elaborazione del significato di un dato o di un insieme.
Dalla combinazione di informazioni con esperienze, valori, competenza connessa al saper fare e al saper intuire nasce la conoscenza.
È un processo intuitivo e strutturato, che si basa anche sull’esperienza. Filtra e seleziona le informazioni in modo da creare scenari navigabili. Comprende la percezione, l’apprendimento, la comunicazione, l’associazione e il ragionamento.
Può anche significare la capacità di usare una certa cosa o soggetto per uno scopo appropriato.
La consapevolezza si attiva con l’autocoscienza del possesso d’informazioni connesse tra loro; prevede quindi anche una parte d’introspezione, per capire i propri limiti e aprirsi all’opinione di chi ha l’esperienza che ci manca: questo (l’esperto) lo scegliamo sulla base della fiducia che ci ispira, in base al nostro background.
La sapienza mette insieme le conoscenze, una comprensione profonda di alcuni elementi, creando anche un ponte fra ragione e passione.
Ha come terreno la cultura ma nasce grazie alla ricerca libera da un obiettivo, anche attraverso aspetti legati alla serendipità e alla conoscenza analogica, che consente di unire i puntini in maniera imprevista.
La saggezza lega serenità e intensità.
Lega un meta-approccio che comprende l’aspetto etico e la capacità di essere di esempio per gli altri. Può passare attraverso la conoscenza, ma non necessariamente.
In mezzo ci sta la comprensione, intellettuale e umana.
La comprensione intellettuale è la comprensione della parola dell’altro, delle sue idee, della sua visione del mondo.
Ci possono essere difficoltà di comprensione tra strutture mentali complesse e strutture mentali riduttrici.
La comprensione umana è intersoggettiva e richiede apertura verso l’altro, empatia e simpatia (forse anche compassione); è una dimensione che fa accedere al proprio vissuto.
Il riconoscimento della qualità umana dell’altro è una precondizione indispensabile a ogni qualità umana.
Il bisogno più profondo è quello di essere riconosciuti dagli altri e quello di realizzare le proprie aspirazioni.
Lo sviluppo personale è uno sviluppo sociale, che passa per la nostra capacità di legare i dati in informazioni, unita però alla nostra capacità di accedere a risorse intuitive e immaginative.
Sono competenze che ci consentono di gestire l’ansia in cui altrimenti sprofonderemmo.
Sono dotazioni dentro di noi che dobbiamo solo estrarre dal cappello, con un po’ di pratica e l’apprendimento di qualche trucco.
Daniela Mangini
Giornalista | Narrative e Career Counselor | Docente di Storytelling
……………………………………………………………..