La ricerca dell’equilibrio nella comunicazione
Come funamboli sospesi tra efficacia e vuoto comunicativo
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Fin da bambina sono sempre stata una gran chiacchierona.
Tornavo a casa da scuola e cominciavo un interminabile monologo cui soprattutto mia madre assisteva paziente. Mi faceva immensamente piacere condividere i piccoli e grandi avvenimenti della giornata con le persone che amavo. Quando i miei genitori erano al lavoro, la vittima delle mie maratone era la mia nonna materna (mio nonno forse interagiva un po’ meno, ma era comunque un buon ascoltatore!).
Un aspetto curioso dei primi anni delle scuole elementari era che in realtà con i miei coetanei ero molto introversa: avevo un’amica del cuore, ma raramente parlavo con altre bambine (a quell’età i maschi erano ben poco considerati, la divisione tra i sessi era molto netta).
Vi starete chiedendo: ma com’è possibile? Chiacchierona a casa e timida a scuola?
Blocco e sblocco
Semplicemente ero bloccata.
All’epoca c’era ancora un’unica figura che fungeva da insegnante. Io avevo una maestra estremamente severa: eravamo l’unica classe che non scendeva mai in cortile per l’intervallo, che non faceva mai la foto di classe (ancora oggi ne sono fortemente dispiaciuta, non ho alcun ricordo visibile con tutti i miei compagni e compagne dell’epoca…). Avevo paura di parlare, temevo le rigidissime punizioni (per un nonnulla si finiva dietro la lavagna mobile per un tempo che mi pareva infinito) e faticavo molto a relazionarmi con i miei coetanei.
Poi è successo un evento inaspettato.
Per un problema di salute la maestra ha dovuto lasciare la cattedra ed è stata sostituita…dal suo esatto opposto!
La nuova insegnante era molto aperta, sorridente, ci invogliava a giocare insieme. Insomma, ci ha letteralmente sbloccati. Chi era già un po’ vivace è diventato un vero terremoto, chi come me era un po’ chiuso ha finalmente scoperto il bello del comunicare e condividere con i coetanei!
Dalla quinta elementare ho quindi imparato a distribuire in modo più uniforme le mie chiacchiere tra casa e scuola, per buona pace della mia famiglia e con mia immensa gioia.
L’equilibrio: una meta a volte irraggiungibile
Crescendo non ho più abbandonato il mio piacere di parlare e comunicare, ma nel farlo mi sono sempre sforzata di rispettare il tempo e lo spazio, sia mio che altrui.
Mi spiego meglio … e per riuscirci chiedo supporto a Paul Watzlawick e alla scuola di Palo Alto (tratto da “Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi, delle patologie e dei paradossi” di Paul Watzlawick, edito Astrolabio)
. Il suo primo assioma della Comunicazione parla chiaro:
“Non è possibile non comunicare”
Spesso quando ero formatrice d’aula per far comprendere il significato nascosto dietro a questa affermazione invitavo due partecipanti ad agire una simulazione: al primo dicevo di fare il possibile per attaccare bottone con l’altro, mentre al secondo davo la consegna opposta, suggerendogli di sforzarsi di non comunicare in alcun modo con l’interlocutore. Era molto interessante osservare come entrambe le parti in gioco si impegnassero nel loro incarico.
Cosa ne emergeva?
Anche stando in assoluto silenzio e perfettamente immobili, senza nemmeno svolgere uno sguardo verso l’altro, stavano comunque comunicando. Comunicavano di NON voler avere a che fare con l’altro, ma si tratta sempre di un messaggio che trasmettevano, che volessero o meno.
Una dinamica strettamente correlata alla ricerca dell’equilibrio comunicativo è quella della resilienza: occorre anche lasciar correre, occorre “lasciare che sia”… se una persona non vuole comunicare con noi non è la nostra insistenza che gli farà cambiare idea.
In linea teorica la comunicazione per essere efficace dovrebbe tendere ad un 50-50: metà del percorso dovrebbe spettare al primo interlocutore (l’emittente) e la restante metà al secondo interlocutore (il ricevente). È chiaro che un bilanciamento perfetto è difficilmente realizzabile, ma quanto più ci sforziamo di lasciare alla controparte il giusto spazio per comunicare quanto più il nostro scambio sarà davvero efficace.
Squilibri naturali e non
Non in tutte le situazioni è naturale tendere o sforzarsi di tendere all’equilibrio.
Una professoressa che insegna ai suoi allievi per forza di cose non potrà fermarsi al 50%, dovrà fare uno sforzo ulteriore affinché possano apprendere in modo graduale a comunicare tra di loro e con lei, nel rispetto dei tempi di ognuno. Man mano che ci si avvicina alla maggiore età dei discenti è possibile tendere maggiormente ad un ipotetico equilibrio poiché si sono apprese (o almeno…si dovrebbe…) modalità relazionali e comunicative più mature e bilanciate.
Ho citato ben due volte di proposito il concetto di rispetto.
È molto importante rispettare l’altro e i suoi tempi: ciò significa che bisogna sforzarsi di attendere che il nostro interlocutore abbia terminato di parlare prima di intervenire a nostra volta. Il frequente errore del “parlare sopra” crea una sensazione spiacevole in chi si trova dall’altra parte e denota una mancanza di reale volontà di ascolto dell’altro.
Facciamo un esempio. Confrontiamo questi due dialoghi tra due amiche, che chiameremo Paola e Marta:
Primo
- P: ciao Marta, come stai?
- M: mmh, insomma…
- P: oh bene, non sai cosa mi è successo ieri…
Secondo
- P: ciao Marta, come stai?
- M: mmh, insomma…
- P: come insomma? Cos’è successo? Dai, raccontami …
Ora immaginate di essere Marta: come vi sentireste nel contesto del primo dialogo? È abbastanza chiaro che Paola non sia interessata alla condizione dell’amica: la sua priorità è parlare di sé, di ciò che le è accaduto. È un atteggiamento poco altruistico, più tendente all’egoismo.
Nel secondo tutto cambia. Paola ha ascoltato con attenzione (per le differenze tra “ascoltare” e “sentire” vi rimando all’articolo di Elisa Zanella dal titolo “Ascolto Attivo“) le parole di Marta e magari ha anche osservato la sua espressione mentre parlava, infatti si è subito dimostrata attenta alle esigenze dell’amica e si è resa disponibile all’ascolto. Si tratta di un atteggiamento molto più empatico, più attento all’altro.
Comunicare in contesto lavorativo: leader e manager
Anche in ambito lavorativo il discorso non cambia: fino a pochi anni fa se il “capo” parlava, intorno a lui regnava un ossequioso silenzio, si andava ben oltre il concetto di rispetto avvicinandosi in alcuni casi ad una reale sottomissione.
Si parlava maggiormente di manager: non si richiedeva uno scambio di informazioni, spesso ci si limitava ad ordinare ed eseguire (con le dovute eccezioni che, sviluppandosi nel tempo, hanno contribuito all’evoluzione in corso).
Oggi si parla più di leader: pur essendo spesso ancora ben lontani da un 50-50 siamo sempre più distanti (anche qui, ahimè, non proprio ovunque…) dal vecchio modello, poiché le aziende in primis si sono rese conto di quanto favorire una comunicazione più efficace possa essere proficuo per tutti, leader compresi.
Comunicazione: naturalezza e “spintaneità”
Ho sempre pensato che un buon educatore, sia esso un genitore o un formatore, debba avere un ruolo quasi maieutico per quanto attiene lo sviluppo della capacità comunicativa di chi gli è affidato. Occorre imparare a rispettare le inclinazioni altrui, già dall’età scolare, senza etichettare nessuno come espansivo o timido, come portato per la matematica o per l’italiano solo in base ai primi voti ricevuti…ognuno ha i suoi tempi e ognuno le proprie attitudini, che vanno fatte emergere, spronate e non soppresse.
Occorre motivare e incentivare la spontaneità…che in alcuni casi può diventare “spintaneità“, intesa come spontaneità con una leggera spinta…ma che sia leggera davvero e non una forzatura.
Spesso mi è capitato di incontrare genitori frustrati per non essere riusciti a raggiungere determinati obiettivi che spingevano i figli a seguire un determinato percorso, senza curarsi del fatto che quella strada potesse NON essere quella adeguata per i figli. Già alle elementari si sentono talvolta alcune mamme parlare serenamente di “mio figlio, che è bravissimo in matematica, sicuramente frequenterà lo scientifico e poi ingegneria, per poi studiare almeno un anno all’estero e magari aprirsi uno studio in centro”.
Gravissimo errore.
Noi non siamo loro…i genitori non sono i figli, impariamo ad ascoltare ciò che vogliono comunicarci, a volte lo faranno in totale silenzio, a volte vorranno semplicemente sentirci vicini e non sarà necessario dire loro nulla, ma se saremo davvero attenti e vorremo veramente capire…ci riusciremo.
Vi lascio con una riflessione relativa alla grande complessità della comunicazione, attraverso questa citazione che trovo pienamente azzeccata del poeta libanese Khalil Gibran (tratta da “Il Profeta”, edito da Universale Economica Feltrinelli).
Come potrebbero due esseri capirsi senza quella speciale comunicazione di silenzi?
Simona Battistella
HR Manager | Trainer
Bio | Articoli | AIIP Dicembre 2023
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