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Madri Assassine

I motivi del più sconvolgente degli omicidi


Tutt’oggi, l’opinione pubblica incappa in stereotipi e luoghi comuni, come quello della “vittima preordinata” secondo cui alcune categorie di persone sarebbero sempre solo vittime e mai assassini.

Le donne rappresentano una di queste categorie, e se già il fatto che una donna possa uccidere è difficile da comprendere, diventa impensabile accettare che una madre possa togliere la vita al proprio figlio.

Eppure, questa è una realtà che affonda le radici già nella gravidanza, durante la quale avvengono trasformazioni biologiche, psicologiche e ambientali che, se trascurate, possono diventare traumatiche e portare a danni emotivi consistenti.

Se queste esperienze negative non vengono trattate con un adeguato percorso di riabilitazione, la sofferenza e il disagio delle donne coinvolte radica, diventa cronico e, nei casi più gravi, può portare a conseguenze estreme.

Persino all’omicidio, che nella fattispecie prende il nome di figlicidio, infanticidio o feticidio, a seconda dell’età della vittima, che può essere un bambino abbastanza grande, dai 5 anni in su, un bambino piccolo o un neonato.

Nella dinamica degli eventi, l’omicidio del proprio figlio è, solitamente, l’esternazione di un disturbo di depersonalizzazione, che non permette alla madre di comprendere i bisogni fisici ed emotivi dei figli.

Per la stessa ragione, a seguito del delitto, può innescarsi il cosiddetto “meccanismo di rimozione“, una difesa psicologica che permette alle madri di seppellire il ricordo di quanto commesso per non doverne affrontare il dolore.

Se e quando la lucida consapevolezza del fatto viene a galla, il senso di colpa conseguente è tanto insopportabile che spesso la madre ricorre al suicidio come via di fuga ultima dalla realtà.

Ciò che sconvolge ancora di più è che raramente il movente di un figlicidio è attribuibile ad un disturbo mentale o ad una psicosi.

Nella maggior parte dei casi la madre assassina, infatti, è perfettamente in grado di intendere e di volere e agisce secondo ragioni di altra natura, come nel caso delle sindromi di Medea e di Munchausen per procura.


La sindrome di Medea

Protagonista di una tragedia greca, Medea, dopo essere stata ripudiata dal marito Giasone, lo uccide per vendetta assieme alla sua nuova sposa e ai suoi stessi figli, per sterminarne definitivamente la discendenza.

In psicologia, la sindrome di Medea viene attribuita alle madri assassine che uccidono la loro stessa prole per vendetta nei confronti del partner che può averle tradite o abbandonate, fisicamente o emotivamente.

Uno dei casi che più sconvolse l’opinione pubblica in Italia, e che coinvolge la sindrome di Medea, fu il delitto di Cogne.

La mattina del 30 gennaio del 2002, il 118 ricevette una chiamata da Annamaria Franzoni che richiedeva l’intervento dei soccorsi dicendo di aver rinvenuto il figlio Samuele, tre anni, che “vomitava sangue” nel suo letto.

I soccorritori, arrivati sul posto, dichiararono la morte del bambino notando, però, una ferita alla testa, riconducibile ad un atto violento, da cui fuoriusciva della materia cerebrale.

L’autopsia rivelò la presenza di almeno diciassette colpi alla nuca inferti con un corpo contundente in rame, probabilmente un mestolo.

Iniziarono quindi le indagini che si concentrarono da subito sulla madre, Annamaria Franzoni, la quale fu ritenuta colpevole dell’omicidio e pienamente in grado di intendere e di volere, ricevendo una condanna a trent’anni di reclusione che verranno successivamente ridotti a sedici.

Nonostante la donna abbia sempre sostenuto la sua innocenza, il profilo psicologico rivela numerosi aspetti traumatici, a partire dal rapporto travagliato con il marito, che la trascurava e l’aveva trascinata dal centro di Bologna fino al piccolo comune di Cogne, dove la Franzoni era costretta ad un totale isolamento.

Gli scontri tra i due erano frequenti e si ritiene che Annamaria abbia ucciso suo figlio proprio per vendetta nei confronti del marito, che era così poco presente da causare in lei un senso di abbandono inconsolabile.


La sindrome di Munchausen per procura

Per sindrome di Munchausen si intende un disturbo che porta chi ne è afflitto a fingere una malattia fisica o un trauma psicologico per attirare l’attenzione su di sé.

La Sindrome di Munchausen per procura ne è una sfaccettatura.

Il disturbo riguarda genitori o tutori, perlopiù donne madri, e li spinge ad arrecare un danno fisico ai figli o ad un’altra persona fragile, come un familiare disabile, allo scopo di farli credere malati o infermi.

La differenza con la sindrome di Munchausen classica sta nel soggetto che “soffre” della falsa malattia, che non è più il portatore stesso della sindrome, bensì un soggetto esterno.

Tuttavia, anche in questo caso, il fine di chi è afflitto dalla sindrome di Munchausen per procura è quello di attrarre l’attenzione su di sé, attraverso gli elogi ricevuti per le cure maniacali offerte al falso malato o le commiserazioni per la sfortuna capitata a sé stesso e alla sua famiglia.

Il nome della sindrome è nato in Gran Bretagna, coniato dallo psichiatra Roy Meadow, che la inserì tra le cause di morte inflitte dai genitori ai figli.

Infatti, tale disturbo conduce al decesso del bambino nel 10% dei casi.

Il primo sintomo da non trascurare della possibile presenza della sindrome di Munchausen per procura è l’iper-cura delle madri che, esagerando i sintomi dei propri figli, li sottopongono a continue visite mediche o trattamenti complessi, prolungati e dolorosi.

All’ennesima diagnosi negativa, spesso il genitore costruisce delle cure “fai da te“, il cui obiettivo apparente è quello di curare i figli; in realtà, queste terapie costituiscono un metodo per creare dei sintomi nelle vittime, costruendo un circolo vizioso attraverso un modus operandi eterogeneo e crudele.

Sono riportati casi di bambini a cui sono state iniettate segretamente feci, urine, saliva, flora fecale e microbi vaginali.

Altri sono stati avvelenati con veleno per topi, purganti, arsenico, olio minerale, lassativi, insulina; ma anche prodotti di uso quotidiano come sale, pepe da tavola, zucchero e, in un caso, persino con massicce quantità di acqua.


Dott.ssa Consuelo Bridda Autrice presso La Mente Pensante Magazine
Dott.ssa Consuelo Bridda
Laurea in Chimica | Magistrale in Chimica Forense (in corso)
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