L’arte di rendersi ridicoli
La nostra goffaggine è una promessa di indipendenza
Esistono momenti della vita in cui ci ritroviamo in un luogo preciso, un luogo in cui siamo finiti parecchie volte, ma ogni volta ci sembra di non esserci mai stati prima: il disadattamento.
Siamo disadattati dal momento in cui nasciamo e ci ritroviamo in un mondo nuovo, molto meno confortevole del liquido amniotico, molto rumoroso e in cui persone agitate e ancora incomprensibili insistono per farci camminare, per alimentarci da soli e renderci sempre più indipendenti.
È lì che iniziano le nostre prime performance e il pubblico ci dice se siamo stati bravi o abbiamo creato disturbo, inondando lo spazio che ci circonda di ansie e proiezioni di fallimenti, o invece di gioia e una confortevole sensazione di appartenenza.
Vi risparmio la metafora dell’imparare a camminare, anche se sappiamo che è la più diretta per far capire la goffaggine che ci è necessaria per raggiungere un’altra tappa verso l’indipendenza.
E poi la scuola, il nostro balbettare sulle parole, quei segni storti sulla carta.
Ogni conquista non è mai un traguardo solitario: veniamo sostenuti, spinti, caricati di immaginazione altrui, così da entrare in un gioco di illusionismo collettivo in cui è questione di un attimo trasformarsi da domatore di leoni a clown.
Quando le persone sono a disagio ridono, quando qualche pezzo delle loro predizioni non si incastra tendono a distorcerlo secondo il loro mindset di riferimento, quello schema che a volte chiamiamo copione di vita, a volte società, a volte decoro.
Noi siamo i pezzi che sono in grado di cambiare forma rispetto al quadro che abitiamo e turbiamo quell’armonia che non sentiamo più nostra, spinti istintivamente a cercare altre forme più adatte a noi.
Nel tempo che impieghiamo per uscire da una cornice ed entrare in un’altra la nostra forma è imperfetta, le nostre azioni incerte e abbozzate: più sono curiose e coraggiose più turbano il contesto in cui ci muoviamo.
La ragazzina che si veste di nero per darsi il tempo di raggiungere le compagne già sviluppate e decise a mostrarsi nel nuovo corpo, gli anziani che ballano e sperimentano strategie per rimettersi in contatto con la freschezza della gioventù, la persona nuovamente single che ri-esplora il mondo dell’innamoramento e accetta di attraversare i campi minati della seduzione, il borghese che va tra gli anarchici, lo startupper senza cravatta alla convention di industriali, l’industriale in una formazione esperienziale tra ambientalisti.
Il coraggio di affrontare un’esperienza che non ci è nota ci può mettere alla berlina, può provocare i sorrisi più o meno bonari sia della comunità a cui non apparteniamo più, che di quella di cui ancora non siamo membri, e di cui forse non faremo mai parte.
Sperimentiamo perché è l’unico modo per trovare nuovi pezzi di noi.
Se resistiamo saremo persone più complesse, più ricche di esperienze e più consapevoli di ciò che ci appartiene e di quello che invece possiamo lasciar andare.
È l’ingrediente segreto della maestria.
Il prezzo da pagare
In una newsletter che ho ricevuto sui principi del successo, veniva citato Michelangelo per sottolineare quale fosse l’entità del prezzo da pagare:
Se la gente sapesse quanto ho dovuto lavorare sodo per acquisire la mia maestria non sembrerebbe affatto meraviglioso.
Il prezzo del nostro successo è a volte molto alto e può toccare il concetto di dignità, una parola che può essere riempita in moltissimi modi, tali da confermare teorie e suggestionare la vita altrui. Io scelgo una definizione di Jean Starobinski che potete trovare nel suo bellissimo libro “Ritratto dell’artista da Saltimbanco” (Edizioni Aesthetica).
Starobinski scrive:
Il clown è un re derisorio (…) la nostra vera dignità consiste nell’ammissione del nostro essere pagliacci.
Siamo continuamente forestieri a noi stessi, in una serie di slanci e cadute che ci sfiancano ma ci tengono nel tessuto della vita.
Cambiamo i nostri panni e se non lo facessimo non potremmo sperimentare quelli degli altri (la famosa empatia).
Ma nel cambio di abiti e abitudini restiamo nudi e questo ci fa indicare da qualcuno come folli.
Nelle feste celtiche il folk-folle era la figura centrale dei riti del capro espiatorio e collegava la figura del clown e del buffone alla componente sacrificale e salvifica della comunità.
Il potere del capro espiatorio
Ogni cerchia, ogni gruppo, ha bisogno di individuare un capro espiatorio per sentirsi connessa, solida, e allo stesso tempo per poter dare vita a un cambiamento.
Chi accede al coraggio dell’essere oggetto di derisione e se ne prende carico, si concentra sull’esperienza personale e ne viene trasformato, ritrova slancio per sé e forse anche per chi gli sta attorno.
Nelle favole non esiste Re che prima non sia stato mendicante. Lo stesso Ulisse, misconosciuto sotto gli stracci, riconosceva nemici e valutava alleati.
Non esiste Re che non abbia usato un buffone per riconoscere i confini del suo potere, per rintracciare attraverso lo scherno della rappresentazione, i semi del dispotismo.
Essere buffi è fonte di rischio e di enorme potere, per sé e per gli altri. Il pericolo però è quello di farsi bloccare dalla derisione e di non riprendere più slancio.
Essere derisi è utile se si ha il coraggio di guardarsi con onestà, usando gli altri come specchio in cui riflettersi per vedersi – finalmente – e potersi finalmente aggiustare.
Le due vie della risata
Il nostro flusso di esperienza è collettivo, inserito in una forma sociale, e per questo deve essere capace di acquisire nuovi profili o migrare in altri contesti.
Ci sono diversi modi di provocare la risata: una è attiva e nasconde aggressività e potere distruttivo (è spesso quella del trickster), crea discontinuità in maniera lucida, trascina gli altri in un’enclave rispetto al percorso lineare: non per forza è cattiva o nociva, tanto che esiste la Provocative Therapy.
È la modalità che crea sorpresa e intrattiene e consente di aprire il varco a nuove possibilità, avendo fatto crollare i muri della nostra perfetta linearità.
Poi c’è il modo di provocare una risata non cercata, di suscitarla solo per il fatto di di essere usciti dal sentiero comune.
Questo è il ruolo del viandante, che ha come unico obiettivo rimanere solo e compiere il proprio viaggio.
Mi è capitato da poco di leggere un brano di Appunti a matita di Isabelle Eberhardt (1877-1904) da “I cercatori di oblio. Racconti“. Lo riporto:
Un tema su cui pochi intellettuali si sono impegnati è il diritto a essere un vagabondo; la libertà del girovagare. Eppure il vagabondare è liberazione, e la vita sulla strada aperta è l’essenza della libertà. Avere il coraggio di spezzare le catene con cui la vita moderna ci ha appesantito (con il pretesto di offrirci maggiore libertà), prendere il simbolico bastone, la bisaccia e andar via! Per chi comprende il valore e il diletto sapore della libertà solitaria (perché nessuno è libero se non è solo) il partire è, in assoluto, l’atto più bello e coraggioso.
Forse una felicità egoistica. Ma sempre felicità per chi ne sa apprezzare il gusto. Essere solo, essere bisognoso di tutto, essere ignorato, essere un fuorilegge che è di casa in ogni luogo e camminare in modo maestoso e da soli alla conquista del mondo.
Il viandante pieno di salute che, seduto lungo la strada, esplora l’orizzonte aperto di fronte a lui non è forse l’assoluto padrone della terra, delle acque e persino del cielo?
Per noi animali sociali, vedere qualcuno uscire dal sentiero e isolarsi è sintomo di follia.
Deridiamo perché non abbiamo il coraggio di seguirlo, deridiamo perché vogliamo immetterlo nei confini della comunità e ricordargli di non essere eccessivo nel suo rigenerato e sano narcisismo.
Dove arriverà e se aprirà strade ad altri rimane un’incognita.
Se rimarrà ai margini o amplierà i confini degli altri (o i propri) lo scoprirà solo dopo aver rischiato.
Saper attraversare una risata ci rende sovrani delle possibilità.
Daniela Mangini
Giornalista | Narrative e Career Counselor | Docente di Storytelling
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