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I rischi dei social network sulla propria autostima

Prevenire il confronto con gli altri salvaguardando la propria autentica identità

Image by Shutterstock.com (ID: 1490310101)


Ad oggi la parola autostima sembra aver assunto la forma di una vetta irraggiungibile, di una tappa difficile da conquistare e per nulla semplice da coltivare. Eppure questo termine così diffuso affonda le sue radici in un substrato etimologico per nulla scontato, traducibile in una autoreferenzialità e che nel panorama contemporaneo rischia di declinare questo vocabolo solo ed esclusivamente in un significato unilaterale. Definitivo. Riassumibile nel seguente monito: essere all’altezza.

Quest’ultimo monito difatti chiama in causa una distanza invisibile che ciascun individuo pone fra sé e gli altri, la quale peraltro non tarda a concretizzarsi in una sentenza definitiva e carica di un dispendio energetico finalizzato alla rincorsa di un unico obiettivo: vivere in funzione del giudizio e dell’approvazione esterne. A sostegno di quanto appena introdotto l’impiego distorto dei social media ha plasmato di riflesso una serie di etichette estetiche e comportamentali rispetto alle quali convergere il proprio potenziale. Dinanzi cui una mancata adesione conferisce all’individuo l’esclusione diretta dal contesto entro il quale la propria identità si trova a fare i conti con qualcosa che non le appartiene. Con l’imminente rischio di non essere all’altezza di una richiesta in grado di mettere in dubbio le proprie qualità intrapsichiche ed interpersonali.


Gli automatismi cognitivi nella formazione della propria identità

L’aspetto affascinante e al contempo apparentemente invisibile risiede proprio in una concatenazione di automatismi cognitivi e comportamentali che in maniera inconsapevole si riflettono sul nostro equilibrio psichico. Decentrando in maniera procedurale il focus dei nostri pensieri da una dimensione interna ad un’altra più esterna e per questo più accettabile.

Quotidianamente il pensiero, rappresentazioni e le emozioni sembrano emergere e ancor più prendere vita in base a dei canoni precostituiti che altro non fanno se non rivestire il ruolo di calibratore tanto del nostro vissuto quanto del nostro presente. Innescando un circolo vizioso rispetto al quale il pensiero stesso rischia di divenire schiavo di un’etichetta da seguire, verso la quale direzionare un insieme di energie che di contro potrebbero favorire ulteriori espressioni più autentiche e maggiormente in sintonia con quanto di più intrinseco rispecchia la propria persona.

Nel momento in cui si instaura un rapporto tra la psiche e il mondo virtuale le rispettive emozioni rischiano di vacillare, di venire sottoposte al vaglio di un giudizio esterno dinanzi al quale l’omeostasi del proprio organismo risente di un profondo squilibrio. Se sotto un profilo sociale e relazionale inizia a manifestarsi un ritiro e il timore del confronto con quanto ci circonda, viceversa sotto il profilo neurobiologico emergono diversi fattori che in maniera disfunzionale accentuano la possibile ripetizione di un copione ripetitivo, obsoleto e spesso pericoloso.

Ciò vuol dire che la propria autenticità deve essere riprogrammata attraverso una serie di filtri ancor prima di essere esposta pubblicamente. Col conseguente rischio di rendere la propria identità e il mistero che l’avvolge, un qualcosa da nascondere e da condividere esclusivamente se in linea con quei criteri sociali e normativi capaci di confermarne l’idoneità.

Spesso e volentieri infatti il confronto riflette un insieme di processi che partendo dall’apparato visivo coinvolge contemporaneamente l’amigdala, la memoria e non ultimo il pensiero. Ciascun tassello rispecchia di fatti un processo infinitesimale che non solo approda alla nascita di una rappresentazione mentale di sé stessi e degli altri e del proprio modo di stare con loro, bensì sfocia in una drastica convinzione di fronte alla quale sia l’autostima che il proprio pensiero sono in grado di modificare a livello epigenetico il nostro comportamento e le nostre modalità di pensiero.


L’importanza dell’epigenetica nella scoperta di nuove trame individuali

Attraverso il concetto di epigenetica risulta dunque possibile abolire quel rapporto di causa effetto a favore di una sana imprevedibilità in grado di dispiegare nuove trame e proprio per questo un nuovo modo di pensare, percepirsi e ripristinare una nuova omeostasi interna.

Attraverso la presentazione ripetitiva di un’immagine predefinita ad essere chiamati in causa sono prima di tutto i movimenti oculari, i quali a loro volta (e a nostra insaputa) restringono i rispettivi movimenti focalizzandosi esclusivamente su una specifica equivalenza: ciò che vedo riflette una mia imperfezione. Questa medesimo nesso cognitivo rispecchia una restrizione non solo dello stesso campo visivo, ma ancor più del nostro processo cognitivo che rischia di tradursi in un pensiero ed una rappresentazione del tutto sbagliati. Peraltro determinanti nell’inficiare la dinamica e la flessibilità dei rispettivi circuiti cerebrali, che anziché esplorativi e adattativi portano l’individuo ad una cristallizzazione percettiva e rappresentativa capace di intaccare i propri livelli di autostima.

In maniera retrospettiva ogni qualvolta emerge un confronto e/o un paragone vengono prontamente attivati quei circuiti che altro non fanno se non accrescere quelle sensazioni di autocritica, disistima e inefficienza pronte a falsificare la nostra vera natura.

Quella che ancora aspetta solo di essere scoperta in propria compagnia.


Cristi Marcì Autore presso La Mente Pensante Magazine
Dott. Cristi Marcì
Psicologo Psicoterapeuta a indirizzo Psicosomatico e Operatore Perinatale
Bio | Articoli
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