Stress e Cancerogenesi
Esiste un rapporto tra lo stress e il possibile esordio cancerogeno?
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Il concetto di cancerogenesi, attraverso la visione proposta in ambito epigenetico, evidenzia un insieme di fattori in reciproca sinergia in grado di inficiare tanto la salute fisica e cognitiva dell’individuo quanto la sua dimensione intrapsichica (Parkin, 2011).
Lo stretto legame tra un forte stress, duraturo e costante nel tempo, sembrerebbe confermare come le modalità di autoregolazione adottate in passato abbiano una maggiore probabilità non solo di ripetersi nel qui ed ora, bensì di intaccare l’omeostasi psicosomatica attuale del soggetto.
Determinando di conseguenza l’insorgere di un copione già esperito in precedenza e traducibile in un reclutamento di quei distretti (cerebrali) che in maniera disfunzionale (come in passato) rischiano di deteriorare l’integrità soggettiva. Apportando una vera e propria modifica cui può far seguito l’esordio di uno stato mentale in grado di alterare l’equilibrio sia dei rispettivi circuiti neurobiologici che dell’intero organismo (Siegel, 2017).
La dimensione cronologica del passato pertanto chiama in causa quel ventaglio esperienziale che se non ben integrato, simbolizzato e trasformato in un strumento utile al proprio sviluppo, potrebbe ripercuotersi negativamente a livello psichico e biologico; rendendo il proprio background un punto focale attorno al quale le proprie capacità di adattamento rischiano di subire un arresto e ancor più una vera e propria cristallizzazione in una dimensione lontana nel tempo.
Di fatti le modalità attraverso le quali entriamo (o siamo entrati) in relazione con gli stimoli circostanti, vengono istantaneamente convertiti e/o tradotti in pattern biochimici, i quali proprio in base ai rispettivi stili di coping e/o di resilienza, potrebbero determinare una progressione o al contrario un blocco al cambiamento.
Provando ad esaminare più da vicino il fenomeno della cancerogenesi, come sottolineato da Renan (1993) si assisterebbe ad un vero e proprio arresto rispetto alla normale e fluente attività neurochimica, la quale anziché rispecchiare un processo naturale e lineare, provocherebbe viceversa un automatismo ripetitivo pronto a ripercuotersi non solo sull’espressività del nostro patrimonio genetico , bensì sull’attività dei diversi circuiti cerebrali coinvolti nel mantenimento dell’omeostasi dell’intero organismo (Eng, 2014).
A tal proposito grazie a uno studio condotto da Eng e Kokolus (2014) è stato possibile evidenziare quanto un’attività neurochimica disfunzionale e ripetitiva nel tempo sia promotrice di una graduale destabilizzazione circa l’equilibrio psicosomatico, cui si circoscrive in maniera consequenziale l’accentuazione della proliferazione cellulare (Kroenke et al., 2011).
Nello specifico, gli autori hanno evidenziato, come ad un incremento dei neurotrasmettitori degli ormoni dello stress (e dei rispettivi livelli elevati di cortisolo), corrisponda un aumento circa la proliferazione cellulare. Si è oltremodo potuto evidenziare proprio come a livello immunologico l’effetto proliferativo, indotto dal cortisolo, stimoli sia la produzione di insulina che dei metaboliti, inibendo in maniera concatenata (in relazione a quanto sopra citato), l’espressione di alcuni geni (p53 e BRCA-1) correlati alla regolazione dell’apoptosi cellulare (Qin et al., 2015).
Quest’ultima infatti, non solo risulta essere una valida risorsa contro la proliferazione incontrollata delle cellule, bensì risulta direttamente proporzionale all’espressività dei geni, i quali sotto il profilo epigenetico, risentendo delle modificazioni in corso possono innescare un’attività differente e a volte disfunzionale.
Diversi dati in letteratura (Ridout et al., 2015), hanno difatti evidenziato quanto l’ormone dello stress possa influire notevolmente e in maniera negativa circa l’esordio della patologia qui proposta. L’aumento dei livelli di cortisolo si è pertanto rivelato capace di promuovere un vero e proprio squilibrio nella risposta immunitaria (Eng et al., 2014) rispetto alla quale si registra e si evidenzia, un incremento delle attività di Th2 e di Th17, che nel loro insieme si rivelano inadatti nel distruggere le cellule maligne (Bottaccioli, 2020).
Quanto emerge sinora è dunque la proposizione di di un equilibrio omeostatico che sotto il profilo epigenetico può intaccare non solo l’unità psicosomatica dell’individuo, bensì le sue funzioni organiche che a lungo termine potrebbero ripercuotersi anche e soprattutto, sul sistema immunitario. Infatti proprio in base al disquilibrio immunitario e alla sua tipologia di risposta verso le celluleTh2-Th17, l’infiammazione che viene a delinearsi rischia di correlarsi allo sviluppo delle metastasi, le quali riflettono la principale causa di morte.
La struttura della cromatina e le possibili ripercussioni di un suo cambiamento strutturale
Volendo descrivere più nel dettaglio lo stretto rapporto tra stress, dimensione epigenetica e il possibile esordio cancerogenetico, un’ulteriore chiave di lettura indagata riguarda la riduzione della lunghezza dei telomeri, ossia le porzioni finali dell’eterocromatina compatta (Entringer et al., 2011). Da un punto di vista strutturale e funzionale non solo conferiscono una stabilità ai cromosomi, ma al contempo, essendo porzioni degli stessi (dei cromosomi), un eventuale accorciamento può intaccare tanto la stabilità del genoma quanto la sua modalità di espressione del gene (Epel et al., 2004).
Mettendo a rischio la sua modalità espressiva con conseguenti alterazioni e modificazioni cancerogenetiche. Questo processo, in rapporto alla dimensione epigenetica permette di percepire il cancro quale vera e propria patologia multifattoriale capace inoltre di assumere la fisionomia di un atteggiamento dell’organismo non sempre prevedibile, proprio perché a contatto e in costante interazione con diversi aspetti; primo fra tutti il proprio vissuto (Lillberg et al., 2003).
Il tempo dunque descrive una finestra evolutiva grazie alla quale è possibile comprendere quanto le rispettive modalità di autoregolazione esperite ed acquisite durante l’infanzia, possano tradursi in un linguaggio emotivo-genetico non sempre lineare.
L’epigenetica quindi offre una visione in grado di abolire quei nessi di causa ed effetto che per secoli hanno predominato sia nel panorama scientifico sia nel modo di interpretare e tradurre il rapporto tra l’individuo e la sua malattia.
Sotto il profilo neurobiologico è affascinante comprendere come ciò che è inscritto nel nostro genoma sotto forma di esperienze vissute possa riconfermare una modalità di autoregolazione ancestrale e ricorrente che nel caso della cancerogenesi rischierebbe di essere trasmesso anche per via intrauterina. Sulla base infatti di diversi studi è stato possibile documentare come lo stress cronico possa causare un accorciamento dei telomeri fin dalle prime fasi di vita (Blaze et al., 2015).
Una visione più ampia di un processo sensibile ai minimi mutamenti
Il cancro dunque non si presenta quale semplice condizione patologica connotata dalla proliferazione incontrollata di cellule aventi la capacità di infiltrarsi nei normali organi e tessuti dell’organismo, alterandone la struttura e il rispettivo funzionamento, bensì come una malattia multifattoriale.
Questa caratteristica evidenzia infatti la forte relazione tra due chiavi interpretative interdipendenti: quella genetica e quella epigenetica. Se per anni la prima ha offerto una valida visione circoscritta esclusivamente ad alterazioni genomiche e ad anormalità cromosomiche, viceversa l’epigenetica offre ad oggi un quid in più grazie alla quale percepire la cancerogenesi come il riflesso di più alterazioni in stretta compartecipazione. Acquisendo così una visione più olistica del processo cancerogeno che avviene entro il proprio organismo.
Tuttavia, proprio ad un livello più microscopico e spesso infinitesimale, diversi studi hanno confermato quanto le alterazioni epigenetiche svolgano un ruolo cruciale relativo alla modulazione e all’espressione dei geni coinvolti nel processo cancerogenetico (Shen et al., 2013); rispetto al quale alcuni autori hanno confermato come non si evidenzi una vera e propria modificazione della struttura del DNA, bensì un insieme di modificazioni funzionali che se costanti e ripetitivi, potrebbero sfociare in una instabilità disadattiva e cumulativa, cui può far seguito un’instabilità del genoma stesso (Doll, R., Peto, R., 1981).
Attraverso questa visione d’insieme, ciò che si vuole proporre è la concezione di una patologia correlata non solo a più fattori, bensì connotata da una genesi che non necessariamente è correlata alle classiche leggi di causa ed effetto.
Valorizzando così come il possibile esordio sia circoscritto all’ambiente, agli stili di vita che si sceglie di acquisire ma soprattutto agli eventi di vita che possono tradursi in una traccia sia psichica che somatica; rispetto alle quali le proprie capacità di gestione ed autoregolazione dispiegheranno una trama ricca di strumenti adattivi e/o disfunzionali attraverso i quali orientarsi nel proprio quotidiano.
Quanto di più importante si vuole sottolineare è come l’insieme di più fattori, in sinergia con il proprio background esperienziale, possa avere un riscontro diretto a livelli sia intrapsichico che psicobiologico, dando vita a quello che Siegel (2017) definisce stato della mente e che al contempo Carlo Militello (2022) descrive come atteggiamento epigenetico.
Dott. Cristi Marcì
Psicologo Psicoterapeuta a indirizzo Psicosomatico e Operatore Perinatale
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