Autostima
Autoefficacia, circuiti neurobiologici e conseguenze
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L’idea di noi stessi nasce e matura nelle interazioni con gli altri, dapprima con le nostre figure d’accudimento, per poi scontrarsi e confrontarsi con l’ambiente circostante. Se durante la prima infanzia non si è stati accuditi in modo “sufficientemente buono”, ovvero se c’è stato un genitore abusante emotivamente o fisicamente, uno anaffettivo, della trascuratezza emotiva (neglect), ambivalenza – per cui il bambino non capisce se si può fidare o meno del proprio caregiver – si introietta all’interno di sé un’immagine negativa, non abbastanza autosufficiente, in cui il soggetto si può sentire inadeguato o non all’altezza di poter gestire alcune o molte situazioni, a seconda della gravità del trauma infantile.
Il senso di autoefficacia di Bandura
Bandura parla infatti del concetto di autoefficacia – ovvero l’idea di essere in grado di compiere un’attività, un compito – per cui l’individuo si sente capace di autoregolarsi in situazioni sociali e personali e, quindi, di analizzare i propri comportamenti e processi decisionali, tenendosi autonomo rispetto ai fattori esterni, producendo nuove capacità di pensiero e di azione.
Un individuo con un basso senso di autoefficacia può essere portato a mettere in atto comportamenti evitanti, per non imbattersi in situazioni che lo porterebbero a provare ansia e stress, a non avere alte aspirazioni per il forte sentimento di inferiorità e poca fiducia nelle proprie capacità, arrivando a sperimentare spesso ansia, stress e depressione.
Un individuo, invece, con alto senso di autoefficacia riesce a raggiungere meglio i suoi obiettivi, non mettendo in continua discussione le proprie capacità, i fallimenti non sono vissuti come catastrofi, ma come qualcosa in cui mettere più impegno, senza ripensamenti o rimugini, come invece accade a chi ha un basso senso di autoefficacia, il quale spesso finisce per svilirsi e svalutarsi. Un alto senso di autoefficacia è collegato anche al non sperimentare ansia, stress o depressione.
Ma cosa accade al livello neurobiologico? Che differenza vi è in un soggetto in cui è presente una buona autostima da chi non la ha?
Neurobiologia dell’autostima
Studi sistematici sui sistemi neurali che danno origine all’autostima sono notevolmente radicati nella letteratura di neuroimaging (Mitchell, 2009). Precedenti studi hanno dimostrato che l’autostima modula le risposte neurali del feedback sociale nella corteccia cingolata anteriore dorsale (dACC), nella corteccia prefrontale mediale dorsale (dmPFC), nel solco temporale posteriore superiore (pSTS) e nell’insula anteriore (Eisenberger et al., 2011) così come la corteccia cingolata anteriore ventrale (vACC) e mPFC (Somerville et al., 2010).
Sebbene questi non indaghino in modo esplicito sull’autostima, altri lavori hanno esplorato le basi neurali dei processi di auto-valutazione relativi alla funzione di autostima.
I ricercatori hanno scoperto che l’attività all’interno della corteccia orbitofrontale (OFC) e della dACC sono negativamente correlate al grado in cui le persone si considerano superiori alla media rispetto ai loro coetanei (Beer & Hughes, 2010) e che le minacce di valutazione sociale aumentano l’attività neurale della corteccia prefrontale dorsolaterale, OFC, mPFC, insula e amigdala quando si effettuano giudizi dei tratti auto-rilevanti (Hughes & Beer, 2013).
È interessante notare come i ricercatori abbiano anche dimostrato che la dmPFC e la corteccia prefrontale mediale ventrale (vmPFC) sono attivate differenzialmente a seconda del livello di sicurezza e valore personale che i tratti auto-rilevanti hanno in relazione al sé (D’Argembeau et al., 2012). Sebbene la natura del concetto di Sé sia intrinsecamente complessa, i ricercatori che studiano le basi neurali dell’elaborazione autoreferenziale hanno raggiunto un grado sorprendentemente alto di consenso: l’elaborazione autoreferenziale è più coerente con l’attività nella mPFC.
Attraverso numerosi laboratori che utilizzano una varietà di paradigmi diversi, si è visto come quest’ultima mostri una maggiore attività per le rappresentazioni del Sé rispetto a quella di altre persone o delle informazioni semantiche generali, e come abbia un aumento lineare dell’attivazione quando l’informazione diventa più auto-pertinente (Wagner et al., 2012). In effetti, una recente metanalisi di 107 studi di neuroimaging pubblicati sull’elaborazione autoreferenziale, suggerisce che l’attività della mPFC è alla base dei processi cognitivi associati al sé rispetto all’attività di base e dell’attività associata all’elaborazione di informazioni sugli altri (Denny et al., 2012). Poiché i sentimenti di autostima devono trarre informazioni dalla propria auto-rappresentazione, è ovvio che la mPFC può essere reclutata durante l’elaborazione delle informazioni e durante l’autovalutazione.
Sebbene la mPFC sembri sostenere il ruolo di autorappresentazione, la cognizione valutativa è maggiormente associata all’attività in un’altra area del cervello: lo striato ventrale. Quest’ultimo fa parte della via mesolimbica dopaminergica ed è coinvolto nella motivazione e nella ricompensa edonica. Questa regione è anche fondamentale per riconoscere e mantenere gli affetti positivi durante l’elaborazione valutativa ed è stata collegata ai risultati di salute mentale. Infatti, ricerche precedenti hanno dimostrato che i pazienti clinicamente depressi non sono in grado di mantenere un’attività striatale ventrale prolungata nel tentativo di generare affetti positivi, per cui il mancato coinvolgimento di questi sistemi può contribuire a sintomi anedonici di depressione (Heller et al., 2013). Inoltre, i ricercatori hanno collegato la funzione striatale dopaminergica ai pensieri di auto-superiorità, ma hanno riconosciuto che queste funzioni sono probabilmente supportate da circuiti frontostriatali aggiuntivi non esaminati nei loro studi (Yamada et al., 2013). Ciò lascia aperta la possibilità che la connettività mPFC contribuisca all’elaborazione valutativa autoreferenziale in modi non attualmente descritti.
Presi insieme, la connettività dello striato ventrale e mPFC può contribuire all’autostima integrando l’auto-rappresentazione con sentimenti di affetto e ricompensa positivi. Inoltre, i sentimenti a breve termine di autostima aumentano la connettività funzionale frontostriatale, ma questo accoppiamento momentaneo non riflette l’autostima del tratto a lungo termine, che si riflette meglio nella sottostante anatomia della materia bianca, per esempio si può presupporre che vi sia una maggiore quantità di quest’ultima nel soggetto narcisista. Tuttavia, questa dissociazione non può significare che entrambe le modalità di connettività non siano correlate l’una con l’altra.
Sebbene la neuroanatomia sia relativamente statica rispetto alla natura dinamica della funzione cerebrale, sono stati dimostrati aumenti dell’integrità della sostanza bianca in adulti sani seguendo reggimenti di allenamento a lungo termine (Scholz et al., 2009). Nella misura in cui un individuo sperimenta regolarmente sentimenti di autostima dello stato elevato, è possibile che il ripetuto reclutamento di questi circuiti frontostriatali possa aumentare l’integrità strutturale dei tratti della sostanza bianca all’interno di questo sistema nel tempo. Questo, a sua volta, può quindi portare ad un aumento della stima di sé.
In conclusione, il cervello umano con tutte le sue connessioni, strutture neurobiologiche e anatomiche nascono e si evolvono in relazione con l’altro. In particolar modo abbiamo visto che la dlPFC, la OFC, la mPFC, l’insula e l’amigdala sono le zone interessate alle considerazioni auto-rilevanti per il sé, mentre la ACC regola i conflitti che si vengono a creare tra l’ambiente esterno e quello interno.
Si è presupposto che l’autostima possa risedere nella mPFC e nello striato ventrale, poiché contribuiscono rispettivamente all’elaborazione auto-rappresentativa e alla cognizione valutativa. Questo circuito frontostriatale aumenta la quantità di materia bianca, presupponendo così un’autostima a lungo termine.
Conseguenze di una bassa autostima
L’autostima deriva dall’idea che si ha di sé stessi, come ci si auto-percepisce, che valore si dà alle proprie capacità in rapporto anche con quello che la società stabilisce come più apprezzato o disprezzato. Di conseguenza una bassa autostima può portare ad ansia, paure, fobie, un’immagine distorta di sé (anche allo specchio), frustrazioni, insicurezza, eccessiva attenzione a quello che l’altro pensa con il timore di esprimere la propria opinione, non riuscendo a contattare il proprio pensiero riguardo qualcosa, arrivando a svalutare sé stessi e a sopravvalutare l’altro. Si può esperire senso di colpa, vergogna nell’esporsi, autocritica rigida, indecisione, perfezionismo, inadeguatezza, irritabilità, ipersensibilità alle critiche e ai giudizi esterni.
Al livello patologico può portare a disturbi di personalità, depressione, dipendenze, etc.
Avere la consapevolezza di sé stessi, del proprio valore, delle proprie potenzialità, è importante per poter riconoscere l’eccessiva rigidità che si ha verso sé stessi, il continuo mettersi in discussione se si viene criticati per qualcosa, senza riuscire a circoscrivere quella situazione a quel momento e per quella data mansione, finendo per pensare che non si va bene in niente e che si è sbagliati, difettosi, non abbastanza per quello che si vorrebbe raggiungere.
Capire che ogni volta che non prendiamo decisioni o procrastiniamo nel prenderle, è perché nel profondo l’idea che abbiamo di noi è quella che non valiamo, che non siamo abbastanza per raggiungere quell’obiettivo.
Questi pensieri negativi riferiti al Sé avvengono perché già dall’infanzia – mentre si formava il senso di autoefficacia, il proprio sistema di valori e credenze, e l’idea su sé stessi e il mondo circostante – è stata interiorizzata una visione di sé stessi ostile, svalutante ma che in realtà non appartiene davvero al Sé. Appartiene in realtà a chi ci ha cresciuto con queste idee, perché sia successo vi possono essere vari motivi, ma quello che accomuna tutti è che ognuno ha la sua storia: questo significa che spesso le persone, come i nostri genitori, non lo hanno fatto con coscienza, ma perché probabilmente anche loro derivano da un ambiente giudicante, criticante, e non riescono a distaccarsi dal modello genitoriale che essi stessi hanno ricevuto.
Non c’è sempre da fare una colpa, anche se tutto questo produce rabbia e rancore, sentimenti sicuramente da elaborare e indagare, in psicoterapia.
È importante analizzare ed esplorare il proprio vissuto di insicurezza e tutto ciò che ne comporta, perché sarebbe triste continuare a vivere senza poter esprimere realmente sé stessi, i propri potenziali; perché sarebbe una vita sprecata, piena di fissazioni irreali che non fanno contattare il proprio vero Sé, nascosto dalla paura di non essere all’altezza, di non meritare, di essere meno degli altri.
Ma finché non provi, come fai a sapere di non essere all’altezza? Chi ti fa credere di non valere quanto gli altri? Perché mettersi una maschera per apparire più sicuro, quando in realtà vorresti crollare?
Tutti possiamo fare cose e non possiamo farne altre, per inclinazioni personali che ogni essere umano ha. Se tutti fossero bravi in tutto non esisterebbe la diversità, tutti faremmo lo stesso lavoro, tutti avremmo le stesse capacità e così non ci sarebbero innovazioni, miglioramenti, passi in avanti, ma rimarremmo fermi.
La diversità è una ricchezza, non una debolezza.
Ci sarà sempre qualcuno più bravo di noi in qualcosa, questo non significa che non valiamo ma che abbiamo da imparare, riconoscere il nostro potenziale e dove poterlo esprimere; come dice una frase attribuita ad Einstein (mai confermata):
Ognuno di noi è un genio. Ma se si giudica un pesce dalla sua abilità di arrampicarsi sugli alberi, lui passerà tutta la sua vita a credersi stupido.
Tutti noi abbiamo le capacità per eccellere in un campo, la vita sta nel trovare la nostra abilità e fare di tutto affinché si raggiunga il miglior risultato, che coincide con il far uscire fuori la versione migliore di sé stessi.
E allora come conviene vivere? Nell’inconsapevolezza di sé stessi e delle proprie capacità, come un pesce che scala una montagna? O prendersi in mano la propria vita per cercare di viverla come se fosse il tuo capolavoro? Con le nostre vere capacità, con la sicurezza per affrontare e vedersi finalmente per ciò che si è veramente?
Fonti
Somerville LH, Kelley WM, Heatherton TF. (2010). Self-esteem modulates medial prefrontal cortical responses to evaluative social feedback. Cerebral Cortex.
Chavez R.S., Heatherton T. F. (forthcoming, 2014). Multimodal frontostriatal connectivity underlies individual differences in self-esteem. Social Cognitive and Affective Neuroscience.
Dott.ssa Lucia Marzano
Psicologa Clinica
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