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Psicopompo

Psicopompo Amélie Nothomb recensione

Image by Gustavo Zambelli on Unsplash.com

Che cos’hanno in comune gli uccelli, la scrittura, una violenza sessuale, l’anoressia e la morte?
A parte essere l’oggetto dell’ultimo romanzo di Amélie Nothomb, sembrerebbe nulla fino alla fine del libro, dove la matassa si dipana in qualcosa di non troppo lineare ma che il lettore può cogliere alla perfezione.

Il romanzo si apre con una (forse eccessivamente) lunga digressione sulla passione che l’autrice sviluppa da bambina per i volatili, di cui osserva il librarsi nell’aria, le abitudini alimentari e sociali, il comportamento in relazione ad altre specie, compresa quella umana.

Ed è quasi con una prospettiva a volo d’uccello che il lettore si trova, qualche capitolo più avanti, ad essere spettatore di una violenza sessuale, appena delineata, elegantemente lasciata intendere più che narrata, di cui la Nothomb è stata vittima da ragazzina, in quell’elemento, l’acqua, che nulla ha a che vedere col volo e che le diventerà ancora più estraneo.

Anche il cibo si farà estraneo con il proseguire della lettura, come se sparire, o morire, potessero portare a una rinascita. Il concetto sembra assurdo, ma è su più piani ontologici che si muovono la trama e l’elaborazione della Nothomb. È come se l’autrice ci dicesse che esistono più realtà. Morire non è annullare uno stato, ma cambiarlo. La morte – esattamente come viene considerato l’arcano senza nome nei tarocchi – altro non è che un profondo cambiamento. Desiderare di sparire (o morire, appunto) si identifica col desiderio di mutare forma e condizione.

Ed è da questa vicinanza alla morte che l’autrice inizia il suo mestiere di romanziere: «Se scrivo è anche perché il gelo non solidifichi dentro di me. Paradosso assoluto, visto che scrivere mi sprofonda in un freddo indicibile […] è un po’ come se cercassi di scoprire fino a che punto posso avvicinarmi alla morte». E paragonandosi ai suoi amati pennuti, prosegue: «Quando le temperature scendono eccessivamente sotto lo zero, alcuni uccelli emettono un canto di una bellezza straziante. Questo fenomeno meraviglioso non ha alcuna spiegazione biologica. L’unica che gli ornitologi hanno avanzato è questa: la manifestazione della bellezza riduce l’angoscia dovuta al freddo». Tutt’altro che concorde con il concetto di ars gratia artis, di arte che esiste solo fine a sé stessa, la Nothomb le attribuisce un ruolo finalistico preciso e salvifico, dove il salvataggio non sta nello strappare dalla morte, ma dal mettere in comunicazione con essa.

È questo il ruolo dello psicopompo, il conduttore di anime. Per la precisione, è colui che sa muoversi tra i mondi. Non parliamo solo del Caronte dantesco o di Orfeo che scende agli inferi per la sua Euridice. L’archetipo per eccellenza dello psicopompo (ruolo attribuito nel corso della storia a molte divinità e che la Nothomb, in un atto decisamente poco modesto si autoattribuisce) è Ermes, Mercurio, il messaggero degli dei. Alato (non a caso in un testo che parte proprio dall’amore incondizionato per creature capaci di volare), il figlio di Zeus si districa tra il mondo materiale, finito e destinato a finire dei terresti e quello eterno e immortale degli dei. Per l’autrice, «lo psicopompo è colui grazie al quale la morte non è cessazione del movimento. Il morto, come il vivo, ha ancora un cammino da compiere».

Alla morte del padre, la Nothomb si ritroverà a parlare con lui, ad esserne lo psicopompo. Ma qual è l’anima che ha bisogno di essere condotta per mano verso l’accettazione di questo profondo cambiamento? A chi spetta elaborare il lutto? «Dare corpo alla voce di mio padre è stato psicopompo innanzitutto per me: mi ha permesso di capire perché mio padre avesse avuto un simile bisogno di mettermi al mondo». Forse era l’anima di un vivo ad avere bisogno di trovare la spiegazione della sua condizione.

La Nothomb ha quel talento naturale e innato che la porta (quasi obbliga!) a fare della sua stessa esistenza l’oggetto della sua arte e, al tempo stesso, della sua arte l’essenza della sua vita, un po’ come Bjork in musica o Marina Abramovic nelle arti performative. Sono molti i romanzi autobiografici dell’autrice belga nata in Giappone, ma questo, forse a sigillo di una maturità che non è solo letteraria ma ormai anche anagrafica, è il più personale e intimo di tutti.

Figlia di un diplomatico, con un’infanzia necessariamente errabonda, in continua oscillazione tra la sensazione di casa provata negli anni giapponesi e lo straniamento da altre terre, la Nothomb scruta sé stessa e i fatti che le sono accaduti con un doppio sguardo, interno ed esterno, mostrando contemporaneamente un crudo distacco e una profondissima introspezione. Sembra dirci che ciascuno di noi è, in fondo, psicopompo di sé stesso, medium tra l’individuo e la società, tra la ragione e il sentimento, tra la vita e l’inesorabile destinazione che questa implica.

La lettura scorre piacevole, in una prosa mai banale, a tratti sarcastica.
“Psicopompo” si può leggere in un paio d’ore, in assoluta leggerezza, ma dà sicuramente il meglio di sé se il lettore si lascia andare a digressioni pseudofilosofiche, reminiscenze di studi umanistici e, soprattutto, se permette che si affaccino in lui le riflessioni più o meno esplicitate che ciascuno di noi fa con sé stesso sul senso dell’esistenza.

Buona lettura!
Marialuisa Ferraro

Psicopompo

Valutazione
4.5/5

Autore: Amélie Nothomb
Editore: Voland
Genere: Romanzo, narrativa biografica
Anno: 2024
Pagine: 128
ISBN: 978-8862435437

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