Il career counseling e le metacompetenze narrative
L’importanza di disegnare la nostra identità narrativa
Per poter orientare il proprio percorso professionale è necessario partire da un presupposto talmente banale da sparire dalla nostra coscienza: in quale progetto di vita si inserisce? A quale sistema fa riferimento? Mark L. Savickas, ideatore del modello di career counseling legato alla psicologia narrativa, pone una distinzione tra:
- orientamento professionale, che ha a che fare con il matching tra domanda e offerta di lavoro;
- career education, che riguarda il percorso dedicato all’attivazione di risorse del cliente;
- career counseling, ovvero l’attività dedicata alla progettazione della propria vita lavorativa.
In un momento storico in cui l’economista Jeremy Rifkin parla della necessità di rivedere il lavoro legandolo a un rapporto più stretto con la natura, e della necessità di un massiccio sviluppo di nuove filiere occupazionali, l’urgenza è quella di uscire da sistemi standard di lavoro e maturare una consapevolezza, prima singola e poi collettiva, del legame tra il lavoro e la nostra natura individuale.
Senza arrivare all’ormai nota filosofia giapponese dell’Ikigai, si può più modestamente iniziare a esplorare la propria storia personale e professionale per renderla indipendente da narrazioni esterne, ma allo stesso tempo coerente con la metastoria che si sta creando a livello sociale.
Le persone, dice Savickas, devono diventare autrici della propria storia, in modo da manovrarne gli snodi fondamentali e adattarsi a un flusso imprevedibile di eventi.
Identità e adattabilità, metacompetenze fondamentali
In un mare così mosso l’unica bussola affidabile è quella interiore, in mezzo a tante voci contrastanti e confuse l’unico comando attendibile (se ben allenato) è quello maturato nell’autoconsapevolezza.
Trascinati nella retorica del cambiamento, solo ascoltandoci in maniera attiva possiamo individuare il giusto ritmo per uscire dalle vecchie abitudini ed entrare in nuove modalità di vita.
Le metacompetenze necessarie per poter affrontare la mobilità fisica, ma soprattutto psicologica, sono quelle dell’identità e dell’adattabilità.
Sembra strano che l’identità riguardi addirittura una metacompetenza, ma in realtà è proprio così, in quanto identità e adattabilità riguardano la nostra capacità di raccontarci, a noi stessi e agli altri.
Ognuno di noi può dare forma a quel modello di interiore che ci consente di mediare e orientare la nostra risposta nelle realtà sociale.
Abbiamo una tesi su noi stessi che spesso si incontra o si scontra con l’antitesi fornita dal mondo esterno (il ruolo sociale).
Riuscire a creare una sintesi tra l’immagine interiore e quella esteriore significa sostenere con la giusta flessibilità il confronto tra il sé psicologico e il contesto sociale.
Il primo passo è però conoscere entrambi.
Ruolo, copione e identità professionale
Il concetto di sé, al di là di un nucleo essenziale difficile da definire e a cui è difficile arrivare, è disegnato dal linguaggio, ci dice Savickas.
Le parole hanno la magia della creazione, perché offrono i concetti con cui si costruisce un elemento essenziale della nostra esperienza.
Ma la consapevolezza del sé è qualcosa di più che una fotografia in un dato momento, è soprattutto lo sviluppo di una continuità tra passato, presente e futuro.
Le parole diventano, in questa visione, custodi del passato e anticipatori di futuro e in questo senso aiutano a rendere possibile quello slancio coraggioso necessario in momenti di perturbazione della nostra linearità di vita.
Riuscire a disegnare un ruolo compatibile alla propria immagine di sé e saperlo mantenere all’interno di un copione (aggiornabile) sono abilità che aiutano a definire l’identità professionale, a offrire una cornice per le decisioni future e a rafforzare quel tanto decantato senso di agency capace di non farci trascinare troppo spesso là dove non sceglieremmo di essere, in situazioni in cui l’ansia può prendere il sopravvento.
Dal mio punto di vista l’ansia non va eliminata, perché è lì che si nasconde la scintilla creativa: riuscire a sentirla e a viverla senza doversene liberare, delegando ad altri scelte e decisioni, è un importante segnale di autonomia e benessere.
Sono inoltre personalmente fan della serendipità, che allena ad accogliere l’imprevisto, anche se mi è chiaro che senza volontà non riusciamo a creare quel giusto attrito con le circostanze, un attrito che genera possibilità.
All’interno di questi movimenti alternati tra abbandono e decisione, costruire, o meglio, focalizzare la propria identità professionale aiuta ad affrontare cambi di impiego, rivoluzioni organizzative, sollecitazioni di cambio di ruolo.
Dissonanza e nuovo sistema di significati
Il problema si verifica per noi quando non siamo in grado, nel momento in cui percepiamo una dissonanza, di integrare le nostre esperienze in un nuovo sistema di significati riconoscibile dagli altri, abbastanza stabile e per noi soddisfacente.
Le fasi in cui avviene questo processo sono indicativamente le seguenti:
- iniziale tentativo di integrare la dissonanza nel consolidato sistema di identità e di attribuzione di significato;
- raggiungimento della soglia critica della dissonanza con relativa disintegrazione o frammentazione dell’identità e tentativo di ripristinare un equilibrio personale attraverso il processo di accomodamento;
- reintegrazione attraverso lo sviluppo di un nuovo linguaggio e l’ampliamento del discorso in cui inseriamo quello che Hans-Georg Gadamer ha definito il “dialogo che siamo“;
- conciliazione dell’esperienza in un modello adattato del proprio sistema di significato, o creazione di uno nuovo lavoro sull’identità per l’attribuzione di senso.
Career counseling come viaggio narrativo
Le narrazioni fatte su di noi agiscono sull’interpretazione del sé e in questo modo pongono il punto di partenza e investono l’immaginazione delle energie che guideranno all’azione.
Lo schema illustrato da Savickas mi ricorda per analogia quello del viaggio dell’eroe.
Una iniziale situazione di comfort viene attraversata da un trauma o da un momento di meraviglia; d’altra parte linguisticamente l’etimologia di trauma contiene sia il concetto meraviglia che di timore (più siamo vicini al sublime, più abbiamo un senso di inadeguatezza).
Professionalmente parlando, un insight, un licenziamento o un fallimento, un’occasione di fare un salto professionale o la scoperta di una vocazione possono essere la dissonanza rispetto al corso abituale degli eventi.
Se non riusciamo a integrare questi piccoli shock nell’identità professionale, la nostra immagine interiore – anche nello sguardo degli altri – si frantuma e dobbiamo riprendere le fila del nostro network, del curriculum ma a volte anche dell’attività lavorativa vera e propria, per creare per noi e per gli altri nuovi sistemi di significato.
È la fase della scelta degli alleati.
In questa fase è richiesto che tutti partecipino alla creazione di un nuovo significato dell’attività produttiva personale nell’ecosistema non solo organizzativo ma di approccio alla produzione e al consumo.
Si tentano nuovi linguaggi per descriversi e per darsi una forma che metta in contatto in maniera nuova la parte più intima di noi e il contesto in cui viviamo.
In questi anni, le normali crisi personali legate al cambiamento del corpo (adolescenza, mezza età, vecchiaia) si inseriscono in un’apocalisse culturale (in cui saltano gli schemi di riferimento su cosa sia bene e cosa sia male, su cosa sia giusto e cosa sbagliato) ma anche in una crisi nel rapporto di base con il proprio ambiente che porta a quella che gli psicologi definiscono sindrome psicoterratica (una relazione negativa con il proprio ambiente a livello locale, regionale o globale che porta a perdita di identità, del senso endemico del luogo e a un declino nel benessere).
L’ecoansia fa parte di queste sindromi.
In questa situazione potenzialmente catastrofica, chi riesce a individuare una nuova narrazione disegna un sistema in cui il cambiamento non solo è possibile ma è anche portatore di benessere individuale e collettivo.
Così la crisi come morte apparente porta a volte un nuovo slancio.
Ritrovare la vocazione
L’analogia tra il micro delle nostre azioni e il macro del contesto e come si condizionano vicendevolmente è spiegata bene da Stephen Ellcock nel suo libro in più lingue “La danza cosmica“.
Lui stesso racconta di come l’assenza di prospettiva possa avere conseguenze devastanti e come il caos sia un pericolo anche a livello microcosmico personale.
Può ad esempio “mandare in pezzi un uomo di mezza età ormai esausto e rimbecillito, fargli perdere ogni punto di riferimento e farlo ritrovare alla deriva in un mondo pieno di insidie“.
Da quel decennale tentativo di venire a patti con quel disordine, Ellcok ha fatto uscire dal cappello una sistematizzazione del caotico archivio di immaginari, simboli e schemi nato sui social media da cui ha attinto per far coincidere le mappe di esseri umani e natura.
Così il digital curator ha trovato scopo e senso partendo da quella frattura dell’identità e dalla perdita di prospettiva avvenuta a metà cammino.
Quel suo ritrovare la vocazione si è tradotto, ad esempio, in un’opera per tutti.
Ma il nostro contributo può essere più semplicemente ritornare ad amare il nostro lavoro, arricchirlo di un punto di vista rigenerato rispetto alle nostre abilità e alla rilettura del contesto.
Per fare questo è necessario sviluppare abilità di biograficità (ovvero come le persone integrano nella loro biografia le esperienze nuove) e di identity work (cioè il lavoro sulla propria identità in modo da attraversare la complessità della vita e l’integrazione del proprio lavoro in nuovi contesti).
Tutto questo è un lavoro di flessibilità e creatività nell’interpretazione, che richiede come presupposto la rinuncia a schemi rigidi.
In altri articoli vedremo altre caratteristiche del lavoro legate al career counseling e al sostegno offerto dagli strumenti narrativi.
Daniela Mangini
Giornalista | Narrative e Career Counselor | Docente di Storytelling
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