Felicità: Vizio o Virtù?
Ce la facciamo ad essere felici tra divieti e permessi?
In questo pezzo il soggetto è la Felicità, sia essa proibita o permessa, oggetto di vizio o di virtù.
Come prima considerazione, mi sembra opportuno toglierci di mezzo il tabù nei confronti della felicità, per poi passare, con spirito più agile, ad altro.
Per farlo, intanto ci si può riferire ai concetti di proibizione fisica e proibizione psichica della felicità.
E già indirettamente si parla anche di felicità.
Nel primo caso, si può parlare di mancanza di felicità che procura, la sua assenza, un malessere fino al dolore fisico a cui porre indubbio rimedio: si parla, così, di “aponia“.
L’aponia, di derivazione greca e della filosofia “soccorritrice” epicurea, è lo stato di piacere derivante dalla capacità di porre il corpo in assenza di dolore e, per differenza, in stato di piacere fisico. Si noti l’alfa privativa della parola: a–ponia (ponia: pena, dolore).
All’aponia fa eco l’atarassia per quanto riguarda l’anima (anche in questo caso, alfa privativa: a-tarassia, che toglie il turbamento della passione).
Non solo nel corpo si sta male, altrettanto nell’anima; dunque, occorre porre rimedio affinché si stabilisca una condizione di benessere, di tranquillità, di stasi emotiva (imperturbabilità) rispetto al turbamento delle passioni: ci pensa l’atarassia, ossia la condizione che “toglie dolore e pone pace nell’anima” (libera riduzione da: “Il vocabolario greco di filosofia” – Ivan Gobry, filosofo francese, 1927-2017).
Bene, si è visto che la filosofia (qui citata in una più che minima parte di quanto l’argomento sia stato trattato) si è occupata (e si occupa) della felicità, o meglio ancora della stato da essa derivante.
E dunque: il divieto si traduce in permesso, almeno in questo caso.
La presenza di felicità toglie l’infelicità.
Sorridendo un po’ ironicamente (e mestamente) verrebbe da dire che, a volte, nella vita basta “un’alfa privativa” per togliere il negativo e trasformarlo in positivo!
A proposito di permesso, la nostra Costituzione sancisce il diritto inalienabile alla felicità, essa è un valore sancito implicitamente dall’art. 3.
E le religioni? Discorso difficilissimo.
Dal nirvana buddista come via maestra, al ruolo del proprio cuore ispiratore dell’induismo, dalla necessità di conoscere se stesso dell’islamismo, all’ebraica alleanza propiziatrice con dio, fino all’attesa terrena premiante del cristianesimo.
Invece, la psicologia che racconta?
Certo che sì, anch’essa sa parlare di dolore;
Lo descrive con altri termini quali apatia, anedonia, alessitimia, infelicità, termine – quest’ ultimo – un po’ più caricato rispetto al senso comune, ossia è messa un po’ anche la volontà o l’incapacità di essere felici. Capacità conscia o inconscia che sia.
Inconscia perché il rimosso spesso e volentieri risale a galla a “perturbare” l’ignaro poveretto che se l’è già vista brutta in passato e che, in qualche modo, “ha messo via” la questione dolorosa, la ferita narcisistica. Il perturbante è lo sconosciuto familiare che ritorna a disturbare (Freud, Il Perturbante, 1919).
Quanto detto significa che anche a voler godere di qualcosa, c’è il “bastonatore” interiore che lo vieta.
Anche le patologie, fisiche e psichiche, possono impedire di essere felici.
Ma non è detto: c’è chi riesce a trovare una propria dimensione di accettazione del dolore e di trasformarlo in offerta, in sacrificio per qualcosa in cui crede.
Che sia fede o rimozione…da psicoanalista non posso sicuramente escludere ed ignorare la seconda possibilità, senza nulla commentare sulla prima, che appartiene al mondo intimo e inviolabile di ognuno.
C’è anche la felicità per il potere, per i soldi, ma si può tralasciare.
Viene solo in mente il “Paradosso di Easterling“: i soldi danno felicità fino ad un certo punto, oltre il quale la curva scende all’aumentare del denaro stesso: come si dice: “i soldi non fanno la felicità”… però a quanto pare, persino l’economia dice che … fino ad un certo (bel) punto sì!
Per stare nel titolo – che come tutti i titoli deve rispettare ciò che promette e non solo “sedurre” – ce la si può fare ad essere felici se si riesce a venir fuori dall’infelicità.
Come fare, si è un po’ visto ma è tutto un programma.. si può sempre fare appello ai Grandi Pensatori e ai Grandi Studiosi della Mente. Oppure, molto più saggiamente si può fare appello alla libera scelta individuale di come si desideri vivere.
Dunque: Felicità, felicitas, felix-icis.
Decisamente più bello il suo “sinonimo” greco eudaimonia (eu: bene, daimon: spirito guida) ossia il bene nella felicità.
Finalmente! Felici perché qualcuno guida alla felicità: ecco un permesso contrapposto al divieto. Ma non è certo l’unico.
Non da meno è anche la radice fe in Felicità: vuol dire abbondanza, ricchezza e quindi chi è felice è “anche ricco”!
Dunque, essere felici è una virtù, una qualità, una predisposizione d’animo.
La felicità è un’emozione stabile (finché dura) assimilabile al sentimento derivante dalla soddisfazione dei propri bisogni e dall’esaudimento dei propri desideri.
Un po’ come il discorso dell’omeostasi: si sta bene e si può essere felici quando il proprio equilibrio interiore non è turbato dalla modificazione degli eventi esterni.
Da quanto sopra si deduce che la felicità tocca sia le emozioni che gli affetti, nel senso che non è (può non essere) necessariamente legata a qualcosa di materiale.
Un tramonto, un’alba, un sorriso, un amore, stima proveniente dagli altri…..
ma non solo, figli, famiglia, salute, lavoro, sufficiente sicurezza economica, amicizie …. Non sono stati che procurano felicità?
E poi, perché no? Ambizione realizzabile, tensione al successo….
Una modesta e sana quota narcisistica aiuta niente male….
Essere felici significa essere individui risolti, senza grossi problemi che appesantiscono la vita, avere il senso di Sé, star bene con se stessi e con gli altri, avere una prospettiva positiva di vita, significa avere coraggio.
Dunque, felicità ed emozioni: dell’invidia non ci si aspetterebbe di parlar bene.
Emozione secondaria, nella sua accezione positiva porta a “sudare” per raggiungere il bene che l’altro possiede.
E’ positiva nel senso che spinge a mettere in funzione tutti i meccanismi psichici, e poi pratici, per il raggiungimento dello scopo. In tal senso, è una valida motivazione alla felicità.
Allora, felicità dell’agire.
Chi è capace di agire per l’ottenimento della felicità possiede una virtù, una marcia in più, almeno quella di sapersela cavare nel marasma della vita.
Anche la società si impegna, in moltissimi modi, per la felicità dei suoi, perché un individuo felice è decisamente più produttivo e quindi meno “costoso” in termini di assistenza e di peso sociale.
Si deduce che si è felici anche socialmente e non solo psicologicamente
Che questa cosa del socialmente felici sia una virtù non lo so, penso che sia cosa buona e basta.
In ultimo, chi e cosa consentono di essere felici?
Tanti e tanto: la religione che promette, la società che acconsente, la filosofia che insegna, la psicologia che dispone i mezzi…. Ma alla fin fine è nella libera scelta soggettiva che risiede la predisposizione alla felicità.
Ad ogni modo, per concludere:
“chi vuol esser lieto sia, di doman non c’è certezza” (da: Trionfo di Bacco e Arianna, Lorenzo de’ Medici, Signore di Firenze, 1449-1492).
E dunque, dai….. con la virtù della felicità!!!
Dott.ssa Grazia Aloi
Psicoanalista | Psicoterapeuta | Sessuologa
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