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Oltre il senso di colpa

Non posso fare a meno di essere me stesso


Temporale, nubi nere all’orizzonte, lampi si riflettono su un mare stranamente calmo, un gabbiano vola alto, fiducia o fedeltà’?

Quante volte nella stanza di terapia ascoltando le storie che mi vengono raccontate, colgo questo binomio, fiducia, fedeltà, condanna o possibilità che guidano le vite delle persone.

Intravedo nelle pieghe dei loro racconti la determinazione di alcuni significati nascosti nel tempo, come un ripetersi, e di come l’essere umano trasporta sulle proprie spalle vincoli che arrivano dai vissuti della famiglia di origine.

Fili spessi, sottili, invisibili, portarli alla luce della consapevolezza diventa un viaggio, un’immersione dentro profondità e risonanze inimmaginate.

Veronica, ragazzina sveglia, di 12 anni, attacco di panico, il cuore all’impazzata, le compagne di classe, l’insegnate chiamano casa.

Comincia così il nostro lavoro, partendo da quell’ episodio che porta lentamente la ragazzina, fino a quel momento eccellente nello sport, a scuola, nelle relazioni, a chiudersi, a sparire dai contesti fino allora esplorati, sicuri, a nascondersi.

Il Panico.

Impieghiamo insieme un tempo a ricomporre una storia, che partendo dalla crisi vissuta dai genitori l’anno prima, con il padre uscito di casa per sei mesi, apre le porte ad un percorso a ritroso che ci conduce fino alla nonna materna.

Nonna abbandonata dalla madre alla morte del padre, a soli tre anni, ritrovandosi a essere spostata di famiglia in famiglia e ogni volta che tornava dalla madre subiva aggressioni psichiche e fisiche.

Veronica si sente sotto pressione di fronte ad un padre di successo, che le chiede di essere  eccellente, ma un uomo che ha saputo tradire.

Si è ritrovata spaesata di fronte alla fragilità di una donna, la mamma, per il dolore dell’ abbandono.

Lo stesso dolore vissuto dalla nonna in un’alta forma ma con la stessa intensità, descritta come fredda, ha allevato Veronica quando piccola i genitori lavoravano.

Coinvolgendo nella stanza di terapia anche i genitori, ristabiliamo confini, creando un contenitore dove Veronica può esprimere le sue paure, essere ascoltata, mostrare la sua rabbia verso il patto tradito dal padre, c’è voluto un tempo affinché la coppia di genitori riaffrontasse ferite rimaste sospese.

Barricati nel vizio quotidiano, si è perso la curiosità dello sconosciuto. – M. Bussola

Ricomporre la propria storia personale, ritrovare una connessione, vuol dire darsi il permesso di entrare in contatto, conoscere ciò che vive ed è presente nello spazio intimo di sé stessi, per comprenderlo e potergli dare la direzione voluta.

Immaginate il bambino, nasce con potenzialità quasi infinite, senza conoscerla apprende una lingua che ha più sfaccettature, linguistiche, relazionali, emotive.

Impara ad appartenere ad un contesto che predispone condizioni, cornici emotive e psicologiche su cui il bambino deve camminare, adattando, esplorando ed esprimendo le sue risorse, affinando le sue capacità.

Per fare questo deve appartenere e al tempo stesso cercare di rimanere se stesso, ed è così che quelle possibilità infinite si definiscono, si limitano creando schemi, meccanismi che diventano modi di vivere, di essere, di percepire se stessi nella vita.

La crisi in qualsiasi forma si presenta, relazionale, affettiva, lavorativa, fisica  mette, come uno specchio di fronte ai limiti di quegli schemi, portando a scoprire riconoscere  modi altri  con cui interpretare la vita.

La crisi non è mai contro, apre possibilità ed orizzonti.

Accogliere il disagio, l’imbarazzo, la paura nel manifestare certi stati d’animo, alcune emozioni, vuol dire crescere, uscendo dall’incastro del gioco figlio, figlia, genitore.

Antonia ha un rapporto coi figli sofferente, si sente esclusa, rifiutata, poco compresa.

È una terapeuta, da anni lavora in un centro per i disturbi alimentari di una grande città, mi racconta che ne ha viste di tutti i colori, ed è spaventata che i suoi figli, ormai in fase adolescenziale, possano vivere qualcosa di simile alla sua esperienza lavorativa.

Lei è quella che in casa impone regole, avendo come risposta opposizione e mancanza di dialogo.

Prova a coinvolgere la famiglia con dialoghi, possibilità, proposte  ma il  risultato è sempre lo stesso, si ritrova sempre più isolata.

Cristian, il compagno, papà dei due ragazzi  invece ha un rapporto complice, lo rispettano, e di fronte alle regole e soprattutto all’intransigenza di Antonia nel volerle far rispettare, si piega ma non condivide.

Ci vuole un tempo per comprendere che il problema coi figli in realtà è lo specchio di un problema di coppia. Sembrano due che camminano su due rive opposte e che non vogliano o possano costruire un ponte che li avvicini.

Lavorare con loro vuol dire comprendere insieme che parlano lingue emotive diverse, lei per la sua storia ha imparato che amare vuol dire anticipare, fare, prendersi il peso, l’obbligo, mentre per lui amare vuol dire non farsi troppe domande, lasciare che le cose vadano avanti senza interferire, assecondando le richieste senza condividerle, boicottare l’altro silenziosamente.

Quello che mi fa innamorare dell’altro è quello che dentro di me non ho potuto esplorare e lo sento territorio sconosciuto, mancante.

Ed è incredibile che proprio quello che ci fa innamorare, perché non conosciuto diventerà nel tempo l’elemento che dividerà, costringendo a intraprendere un percorso anche doloroso, intenso per  riappropriarsi e scoprire dentro di sé quei territori mancanti.

Costruiamo, progettiamo, soffriamo dentro le relazioni, per cercare di completare su piani diversi quello che, consapevolmente ed inconsapevolmente, percepiamo senza saperlo vivere.

Quello che  manca affonda le radici nella storia emotiva affettiva appresa nella relazione con i nostri genitori, assorbiti da loro come figli, da quelle radici che affondano in un terreno estremamente profondo.

Tormenta ho visto alberi immensi sradicati, rami che guardavano il cielo ora rivolti come in preghiera verso la nuda  terra, ho visto le voragine che le loro radici divelte hanno aperto.

Rimango ancora toccato quando mi raccontano di famiglie dove nascono solo figlie femmine e nessuna di loro sceglie, oppure no, di vivere la sua maternità.

Il messaggio implicito che spesso ritrovo dentro a questa storia è “Con me la storia delle nostre donne finisce qui“.

Francesca, Luisa, Irene, tre sorelle, carriere importanti per le prime due, una patologia psichiatrica per la terza.

Una famiglia di imprenditori, un padre forte, una madre altrettanto risoluta, hanno avuto le figlie in età avanzata.

Francesca entra nel mio studio, a causa del litigio che l’ha divisa  da Luisa.

Sono più’ di due anni che non si parlano, e la gestione della sorella psichiatrica, alla morte dei due genitori,  grava tutto sulle sue spalle. Non ha una vita personale, single ormai da più di cinque anni, non ha tempo, voglia, di aprirsi all’altro.

Soffre di una malattia autoimmune  che la costringe a prendere una quantità infinita di medicine.

È una donna che oltre che dalla carriera è stata assorbita solo dalle vicende familiari.

Non le è bastato mettere a vent’anni km di distanza, la famiglia l’ha ricatturata e lei non si è potuta o non ha voluto sottrarsi.

Sarà’ la malattia autoimmune la  chiave per aprire piano, piano un dialogo con le proprie emozioni, dove la vulnerabilità, apparirà come quella parte di lei che doveva essere sacrificata.


Stefano Cotugno Autore presso La Mente Pensante Magazine
Dott. Stefano Cotugno
Psicoterapeuta Sistemico Relazionale
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