Passione semplice
Ho letto “Passione semplice” dopo aver visto il film tratto da questo libro intitolato “L’amante russo” diretto dalla regista franco-libanese Danielle Arbid. La prima volta lo vidi per caso e subito mi colpì, perché mostrava in maniera emblematica i vissuti delle persone che presentano dipendenza affettiva, tematica di cui mi occupo da anni come psicoterapeuta.
Il libro della scrittrice francese Annie Ernaux “Passione semplice” è stato pubblicato per la prima volta nel 1991 e poi tradotto in più di 20 lingue. In Italia è uscito nel 1992 edito da Rizzoli. Appena pubblicato fece molto scalpore, soprattutto perché “ad alto contenuto erotico”. Si tratta di un libro autobiografico, in cui la scrittrice racconta ex post in prima persona la sua relazione clandestina con un uomo sposato straniero A., consentendoci di “sbirciare” nella sua testa e nel suo cuore.
Sei tutto il mio tempo
Ho misurato il tempo con il mio corpo. Ho scoperto di cosa si può essere capaci, cioè di tutto.
Questa frase, che compare in copertina, è indicativa di come la protagonista vivesse il tempo solo in funzione della relazione affettiva di dipendenza con A., solo in vista del prossimo incontro con lui. I pensieri, come mulinelli vorticosi, si attestavano sui preparativi per accoglierlo nella maniera migliore:
leggere nel giornale gli articoli sul suo Paese (era straniero) scegliere come abbigliarmi e truccarmi
scrivergli lettere
cambiare le lenzuola e mettere fiori in camera
annotare ciò che non dovevo dimenticare di dirgli, la prossima
volta, che avrebbe potuto suscitare il suo interesse
comprare whisky, frutta, cibarie per la serata insieme
immaginare in quale stanza avremmo fatto l’amore al suo arrivo.
Viveva quasi in trance, completamente dissociata dalla realtà che la circondava, che diventava per lei solo “un mezzo d’impiegare il tempo situato tra due incontri”. I libri che leggeva, le parole delle persone con cui interagiva, il telefono che squillava… tutto riconduceva sempre a lui e all’attesa estenuante e dolorosa di rivederlo. Per il resto si trascinava nelle giornate come un automa, come se niente altro avesse più significato (neanche i suoi stessi figli), perdendosi in fantasticherie e nei ricordi dei momenti passati insieme.
“(…) io non conoscevo che la presenza o l’assenza. Affastello soltanto i segni di una passione, oscillando senza posa tra “sempre” e “un giorno”, come se un tale inventario mi possa permettere di raggiungere la realtà di quella passione”.
Esisteva solo il presente degli incontri con A. e la sua assenza. Un presente che, tuttavia, diventava gradualmente sempre più fonte di dolore e di assenza di godimento per il pensiero ossessivo e perturbante che quel tempo insieme, quell’idillio sarebbe prima o poi finito: “Più i giorni scorrevano senza che egli mi chiamasse, più ero sicura che mi avesse lasciata”.
Riuscirò a farmi amare da te
Continuo era il suo sforzo per conquistarlo ogni volta, per mantenere alto il desiderio di lui e scongiurare l’abbandono, comprando continuamente vestiti nuovi, curando ossessivamente ogni particolare, in modo che potesse vederla sempre rinnovata, mai uguale e affinché non desiderasse altre donne: “comparire in un abbigliamento che avesse già visto mi sembrava una colpa, un cedimento nello sforzo verso quella sorta di perfezione cui tendevo nella mia relazione con lui”.
Tutto questo rivela l’atteggiamento di sfida con cui si pone il dipendente affettivo, una sfida per riuscire a farsi amare, perché è convinto che l’amore vada conquistato. La tendenza è di voler raggiungere un ideale e una forma di perfezione impossibile, per mantenere un idillio di cui ha bisogno per sentirsi sicuro di non venire lasciato dal partner. Alla base l’arcaica convinzione di non essere abbastanza, di non valere e l’autosvalutazione: “io, che mi sminuivo in proporzione inversa, non trovavo in me alcun motivo d’interesse che potesse trattenermelo accanto”. Da qui il timore, che diventava quasi certezza, che lui potesse sostituirla rapidamente con altre donne, soprattutto quando era lontano e non si faceva sentire.
Si accontentava delle briciole. Niente attenzioni affettuose, niente telefonate, niente regali che avrebbero potuto metterlo in difficoltà con la moglie, ma solo e unicamente il desiderio sessuale di lui: “sarei stata certa solo di una cosa: il suo desiderio o l’assenza di esso. La sola verità incontestabile era visibile guardando il suo sesso”.
Allo stesso tempo, si illudeva che anche lui in qualche modo la amasse e fosse geloso di lei come prova del suo amore, “che provasse la mia stessa passione”. E proprio questa illusione perpetuava la dipendenza e il legame con questo uomo. Il fatto stesso che lui potesse non pensarla quando non si vedevano, la riempiva di stupore e sembrava inconcepibile, a dimostrazione di come il dipendente affettivo abbia bisogno di essere pensato e visto dal proprio partner per sentire di esistere:
Talvolta, mi dicevo che passava forse un’intera giornata senza pensare un secondo a me. Lo vedevo alzarsi, prendere il caffè, parlare, ridere, come se io non esistessi. Questa differenza con la mia propria ossessione mi riempiva di stupore.
Il tabù e la vergogna
Nel libro emerge l’autopercezione di “anormalità” che spesso ha il dipendente affettivo, per il fatto di riempire la propria esistenza, la propria testa e il proprio cuore di un’unica persona. La protagonista afferma: “Avevo paura di apparire anch’io anormale se avessi detto: «Vivo una passione»”.
Solitamente questa percezione di non essere normale, di vivere “un amore folle”, come l’autrice afferma, si accompagna ad un’emozione di vergogna per la propria condizione di dipendenza e di “sottomissione” a questo folle amore e al partner oggetto di dipendenza. Una vergogna che porta ad evitare di condividere con gli altri quello che si sta vivendo: “Cercavo, con la gente che frequento, di non lasciar trasparire dalle mie parole la mia ossessione”.
La protagonista condivideva con i figli il minimo indispensabile, perché temeva il loro giudizio negativo e li percepiva come giudici inflessibili che l’avrebbero messa sotto processo per i suoi comportamenti riprovevoli, che lei stessa, dentro di sé, riteneva tali:
Continuare [a scrivere], è anche ricacciare l’angoscia del dover far leggere agli altri queste note. Finché sentivo la necessità di scrivere, non mi preoccupavo di tale eventualità. Ora che ho esaurito quella necessità, guardo le pagine scritte con stupore e una sorta di vergogna, mai sentita – invece – vivendo la mia passione, né, prima, nel riferirla. Sono i giudizi, i valori “normali” del mondo che si avvicinano, insieme alla prospettiva di una pubblicazione.
Questa idea di anormalità e il senso di vergogna conseguente favoriscono l’isolamento sociale. Spesso il dipendente affettivo comincia a eliminare tutto ciò che va oltre la sua relazione affettiva: gli amici, le uscite, gli hobbies, la famiglia… “tutte cose che, adesso, mi erano o penose o indifferenti”, afferma la protagonista del libro.
Gli inutili tentativi di interrompere la relazione
Il dipendente affettivo, in considerazione della sofferenza crescente che vive nella relazione con il partner, ha anche fantasie e pensieri di mettere fine alla relazione stessa, ma ogni volta, sistematicamente, questi tentativi falliscono o rimangono solo semplici pensieri momentanei, subito sostituiti dal bisogno di continuare la relazione di dipendenza.
La protagonista del libro afferma:
Quando camminavo per Parigi, vedendo sfilare sui viali grosse automobili guidate da un uomo solo, dal comportamento di dirigente indaffarato, mi rendevo conto che A. non era né più né meno che uno di loro, preoccupato innanzi tutto della sua carriera, con accessi di erotismo, forse d’amore, per una donna nuova ogni due o tre anni. Questa scoperta mi affrancava. Decidevo di non vederlo più. Ero sicura che fosse divenuto per me anonimo e senza interesse quanto quegli occupanti “bene” di BMW o R25. Ma mentre procedevo, guardavo nelle vetrine i vestiti e la biancheria come in previsione di un prossimo incontro.
Alla base la consapevolezza profonda di una relazione in cui è necessario accontentarsi di briciole, di una relazione monca del suo significato affettivo più profondo. Ma questa consapevolezza viene ogni volta sopraffatta dalla convinzione di non poter fare a meno di lui e dall’angoscia provata al pensiero che non ci sia più quella presenza, “utilizzata” come alimentatore della propria esistenza, del senso stesso del proprio esistere.
Provavo incessantemente il desiderio di rompere, per non essere alla mercé di una telefonata, per non soffrire più; ma subito mi assaliva la visione di ciò che il fatto avrebbe implicato, nell’attimo stesso della rottura: una sequenza di giorni senza nulla da attendere. (…) a paragone del nulla intravisto, la mia situazione presente mi pareva felice.
L’epilogo: l’abbandono diviene realtà
È partito dalla Francia per ritornare nel suo Paese sei mesi fa. Senza dubbio non lo rivedrò mai più. In principio, quando mi svegliavo alle due del mattino, mi era indifferente vivere o morire. Il corpo intero mi doleva. Avrei voluto strapparmi il dolore, ma esso era ovunque. Desideravo che un ladro entrasse nella mia camera e mi uccidesse.
Il dolore legato al distacco sembra insostenibile. La protagonista del libro cercava di tenersi occupata per non pensare a lui e per non sentire l’angoscia. Niente sembrava avere più senso:
Vedevo la giornata davanti a me, vuota di qualsiasi progetto.
“Durante quel periodo, tutti i miei pensieri, tutti i miei atti erano ripetizione del prima. Volevo forzare il presente e ridivenire un passato aperto alla felicità”. Aveva bisogno di ripercorrere con la mente tutto ciò che aveva vissuto nel periodo precedente al loro incontro, come se questo potesse servire a far tornare nel presente un periodo del passato, preludio della felicità vissuta con A., come “desiderio d’un tempo reversibile”. Un tempo reversibile che viveva anche nei sogni, in cui l’abbandono veniva vissuto come la morte, con l’attesa di una resurrezione impossibile. La decisione stessa di scrivere un libro autobiografico sulla storia con A. aveva il senso di tenerlo vivo, in “un’eterna ripetizione”.
Con il trascorrere dei giorni, la presenza di A. nella testa e nel cuore della protagonista si fa sempre più sfumata. I ricordi su di lui e sulla loro storia cominciano a diventare sempre meno pregnanti, sempre meno carichi di emozioni: “Il mattino, mi accade di destarmi senza che il pensiero di A. subito mi assalga. L’idea di godere di nuovo “dei piccoli piaceri della vita” – parlare con amici, andare al cinema, mangiare bene – mi provoca meno orrore”.
Nel finale, la protagonista ha modo di rivedere inaspettatamente A. per un ultimo incontro, quando lui torna a Parigi e la chiama, ma sa già che dopo questo incontro non lo vedrà mai più ed arriva ad accettarlo, a lasciarlo andare. I mesi di separazione trascorsi le hanno permesso di comprendere che ce la fa anche senza di lui.
Rimarrà sempre dentro di lei il ricordo della passione vissuta come un dono prezioso:
Che lui l’abbia “meritato” o meno non ha evidentemente alcun senso. E che tutto ciò cominci a essermi estraneo, come se si trattasse di un’altra donna, non cambia nulla: grazie a lui, mi sono avvicinata al limite che mi separa dall’altro, al punto da immaginare talora di superarlo. Ho misurato il tempo in modo diverso, con tutto il mio corpo.
Buona lettura!
Claudia Cioffi
Passione semplice
Autore: Annie Ernaux
Editore: Rizzoli
Genere: Narrativa Biografica
Anno: 1992
Pagine: 80
ISBN: 978-8817064118
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