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Il dolore è solo nella tua testa!

Comprendere la discrepanza tra il danno tessutale e l’esperienza soggettiva può aiutarci a spiegare il dolore


Carlo è un uomo di 34 anni. Da circa 4, lamenta dolore al livello del pube e della gamba sinistra.

In ordine cronologico è stato visitato da: medico di famiglia, fisioterapista, fisiatra, ortopedico, chirurgo, neurologo, anestesista, medico del dolore ed osteopata.

Tuttavia, le diagnosi ricevute sono state diverse a seconda dello specialista: meralgia, pubalgia, ipertono del pudendo, osteoma osteoide, fibromialgia.

Ad oggi, Carlo, non ha ancora una diagnosi ufficiale. Molto spesso pazienti come Carlo si sentono dire:

Non c’è niente che non va nel tuo corpo, i tuoi sintomi non hanno senso da un punto di vista medico, il dolore è solo nella tua testa!.

Questa frase può essere percepita come stigmatizzante e invalidante da parte dei pazienti e può rappresentare un ostacolo nel percorso di guarigione.

Queste parole sono eredità del tradizionale modello biomedico in cui il dolore era considerato come un’esperienza totalmente dipendente e proporzionale all’entità del danno tessutale.

In questa prospettiva, dolore e nocicezione erano la stessa cosa[1].

Il modello biomedico del dolore ha antiche radici filosofiche che risalgono a Cartesio e alla sua concettualizzazione della res cogitans (mente) e della res extensa (materia) come due entità separate e indipendenti.

Questa visione riduzionista del dolore è ormai insufficiente e non è in grado di spiegare condizioni come quella che interessa Carlo. Infatti, ad oggi, è comunemente accettato che nocicezione e dolore non sempre corrispondono.

Una può esistere in assenza dell’altra.

Per esempio, nel caso di un’anestesia locale, c’è nocicezione periferica senza la sensazione del dolore ma al contrario nel caso del dolore talamico, il dolore si presenta in assenza di nocicezione.

Infatti, l’Associazione Internazionale per lo Studio del Dolore (IASP), definisce il dolore come:

un’esperienza sensoriale ed emotiva spiacevole, associata a un effettivo o potenziale danno tessutale o comunque descritta come tale[2].

Questa definizione sottolinea due aspetti importanti.

Il primo è che il dolore interessa anche la sfera emotiva e psicologica, il secondo è che il danno tessutale può essere effettivo o potenziale.

La parola potenziale è cruciale e sottolinea come l’esperienza del dolore non derivi necessariamente da un danno organico.

Questo non significa che i pazienti non stiano soffrendo per davvero. Il loro dolore è reale e fortemente invalidante.

Ma allora come si possono aiutare le persone come Carlo?

Purtroppo, la letteratura scientifica non ha risposte definitive a riguardo.

Non siamo ancora in grado di identificare i fattori che spieghino esaustivamente la spaccatura tra nocicezione ed esperienza del dolore. Tuttavia, il modello bio-psico-sociale[3], rappresenta un primo tentativo di adottare un approccio scientifico al dolore che rispecchi meglio la complessità di tale fenomeno.

Definire il dolore come il risultato di un’articolata interazione tra fattori biologici, psicologici e sociali ha sicuramente impattato la comprensione dell’eziologia, valutazione e trattamento del dolore cronico.

Questo modello ha fornito importanti insights alla ricerca che ha individuato fattori psico-sociali (come stress emotivo, paura-evitamento, ansia e depressione) che facilitano l’insorgenza e il mantenimento del dolore cronico[4].

Questo è un buon punto di partenza, ma bisogna ancora studiare tanto, banalmente.

Nello specifico, bisognerebbe focalizzarsi sulla dimensione soggettiva del dolore per comprendere i potenziali meccanismi responsabili della “spaccatura” tra il corpo (danno tessutale) e la mente (esperienza) che avvengono nel contesto del medically unexplained pain.

Sebbene la comunità scientifica abbia raggiunto un consenso quasi unanime rispetto all’inadeguatezza del modello biomedico di spiegare il dolore, il cambiamento nel modo di fare pratica clinica va ad una velocità diversa e persone come Carlo continuano a soffrire.

Perciò, non è solo la comunità scientifica a dover cambiare prospettiva.

Diffondere questa (ri)concettualizzazione del dolore tra i pazienti e tra i professionisti della sanità potrebbe contribuire a fornire cure più adatte e più ad ampio spettro, cosicché i pazienti non si sentano più dire “è solo nella tua testa!”.

*La nocicezione è l’insieme di meccanismi neurofisiologici che occorrono in risposta ad una stimolazione nocicettiva. Il dolore è l’esperienza che ne risulta[1].


Bibliografia

[1] Merskey H. The taxonomy of pain. Med Clin North Am. 2007 Jan;91(1):13-20, vii. doi: 10.1016/j.mcna.2006.10.009. PMID: 17164101.
[2] Raja SN, Carr DB, Cohen M, Finnerup NB, Flor H, Gibson S, Keefe FJ, Mogil JS, Ringkamp M, Sluka KA, Song XJ, Stevens B, Sullivan MD, Tutelman PR, Ushida T, Vader K. The revised International Association for the Study of Pain definition of pain: concepts, challenges, and compromises. Pain. 2020 Sep 1;161(9):1976-1982. doi: 10.1097/j.pain.0000000000001939. PMID: 32694387; PMCID: PMC7680716.
[3] Gatchel RJ, Peng YB, Peters ML, Fuchs PN, Turk DC. The biopsychosocial approach to chronic pain: scientific advances and future directions. Psychol Bull. 2007 Jul;133(4):581-624. doi: 10.1037/0033-2909.133.4.581. PMID: 17592957.
[4] Leeuw, M, Goossens, MEJB, Linton, SJ et al. The Fear-Avoidance Model of Musculoskeletal Pain: Current State of Scientific Evidence. J Behav Med 30, 77–94 (2007). 


Eleana Pinto Autrice presso La Mente Pensante Magazine
Eleana Pinto
PhD, Ricercatrice universitaria (post-doc)
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